DIALOGO VS MONOLOGO


Sono abbastanza vecchio [ahimè] da aver visto e vissuto manifestazioni di piazza di ogni tipo. La mia carriera da “manifestante in erba” cominciò negli anni ’70, quando mio nonno Antonio mi portava sulle spalle per seguire i cortei dei lavoratori in lotta sindacale per le vie di Cagliari. Un battesimo del fuoco, insomma, con tanto di cori, bandiere e tamburi improvvisati. A proposito: lo sapevate che il primo sciopero generale della nostra storia nacque proprio in Sardegna, nel 1904, grazie ai minatori dell’Iglesiente?

Manifestare è come fare un check-up alla democrazia: se la piazza è piena, significa che la paziente è viva e vegeta, anche se un po’ febbricitante. Si potrebbe dire che la democrazia è una “malattia” cronica: non guarisce mai, ma ha bisogno di continue valvole di sfogo. Un esempio? In Afghanistan, quando le truppe della coalizione provarono a mettere in piedi un governo democratico, la prima cosa che accadde fu… una manifestazione contro quel governo. Insomma, se c’è gente che protesta, vuol dire che la democrazia respira.

La domanda però è: fino a che punto lo “sfogo” è salutare, e quando invece degenera in una metastasi che intossica tutto? Qui le cose si complicano, perché non esiste ricetta pronta. Io, nel mio piccolo, ci ho pensato parecchio e vi propongo una riflessione un po’ strana, ma forse coglierete il filo della filosofia che ci sta dietro.

Non so se abbiate mai preso parte a una manifestazione. Vi assicuro che è un piccolo universo. C’è chi ci va solo per esserci, magari senza sapere bene perché. C’è chi vuole semplicemente esprimere la propria opinione in modo pacifico, anche quando difende posizioni alquanto discutibili. Poi ci sono gli infiltrati — categoria tristemente inevitabile — che cercano solo lo scontro. Infine ci sono i “calienti”, quelli che finiscono faccia a faccia con la Polizia. È in quel punto preciso che la democrazia cammina sul filo del rasoio: manifestanti e forze dell’ordine sono contemporaneamente nel giusto e nel torto, come particelle in un esperimento quantistico.

Il paradosso è lampante: il Popolo esercita i propri diritti, mentre le Istituzioni devono difendere quegli stessi diritti. Tutto bello, finché non arrivano le cariche. In quel momento si entra in una zona grigia, una sorta di “sospensione della democrazia”: l’uso della forza rimane monopolio esclusivo delle Forze dell’Ordine. Al Popolo, invece, la violenza non è concessa, se non in rarissime circostanze private.

La decisione su come e quando usare la forza spetta al Funzionario responsabile del Servizio d’Ordine, un po’ arbitro e un po’ giocatore. È lui che decide se basti una carica di alleggerimento — breve, mirata, chirurgica — o se passare a vere e proprie operazioni “militari”, estese e generalizzate, con il rischio di colpire anche chi manifestava pacificamente.

Il Popolo è un’entità disomogenea, rumorosa, fatta di mille voci e volontà individuali. Le Forze dell’Ordine, invece, sono l’opposto: addestrate, disciplinate, uniformi. Non agiscono per iniziativa personale, ma eseguono gli ordini del Funzionario.

Il risultato? Una complessità ingestibile che nessuna formula potrà mai risolvere. E allora ecco che la manifestazione diventa terreno di scontro politico, di narrazione, di strumentalizzazione. Perché non si riesce a capire che, in una democrazia, la manifestazione dovrebbe essere un dialogo, non un monologo urlato in faccia all’altro.

E non si riesce nemmeno a capire che ogni manifestazione è un mondo a sé: con attori diversi, motivazioni diverse, emozioni diverse, ideali diversi. Proprio come le famiglie infelici di Tolstoj: ognuna lo è a modo suo, e non può essere ridotta a etichette da stadio — destra/sinistra, ratti/zecche.

Alla fine, la linea di confine tra l’Essere e l’Agire dentro la democrazia la traccia ciascun individuo. Perché, come diceva Protagora, l’uomo è misura di tutte le cose.

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