IL LAMENTO DELLA BLATTA


La lamentela! 

Quel peccato capitale della modernità borghese, quella manifestazione volgare di insoddisfazione che disturba la quiete sociale e offende le orecchie raffinate di chi ha già raggiunto il proprio comodo equilibrio. Quante volte ci sentiamo dire che "lamentarsi non serve a niente", che "bisogna accettare le cose come stanno", che "chi si lamenta è un perdente"? Quante volte assistiamo a quella pantomima ipocrita per cui chi critica lo status quo viene immediatamente etichettato come "negativo", "tossico", "lamentoso"? È curioso come in una società che si vanta di essere democratica e progressista, l'atto fondamentale della critica venga sistematicamente scoraggiato, ridicolizzato, patologizzato. Forse perché chi sta bene così com'è ha tutto l'interesse a mantenere il silenzio degli scontenti, a trasformare la protesta in un disturbo dell'ordine pubblico, a convincere i rompiscatole che il problema non è il mondo ma la loro incapacità di adattarvisi. Oscar Farinetti, imprenditore di successo e guru del capitalismo emotivo, ci illumina con la sua perla di saggezza: "La lamentela è figlia della pigrizia". Ecco servita la formula magica per neutralizzare qualsiasi critica sociale: se ti lamenti, sei pigro; se sei pigro, non hai credibilità; se non hai credibilità, la tua lamentela è invalida. Un sillogismo perfetto che ha il piccolo difetto di essere completamente rovesciato rispetto alla realtà storica. Perché, caro Farinetti, se la lamentela fosse davvero figlia della pigrizia, dovremmo concludere che Spartaco era un fannullone, che i rivoluzionari francesi erano dei pelandroni, che Martin Luther King era un perdigiorno, che le suffragette erano delle scansafatiche. Evidentemente la pigrizia, in questa interpretazione, coincide con la scomoda abitudine di non accettare passivamente le ingiustizie, di non chinare la testa davanti ai potenti, di non fingere che tutto vada bene quando tutto va male. Ma forse è proprio questo il punto: in un sistema che ha bisogno di acquiescenza per funzionare, chi si lamenta diventa automaticamente un sabotatore, un elemento di disturbo che va neutralizzato con l'arma più efficace di tutte: la delegittimazione morale. Così la lamentela, che è il primo atto di ogni trasformazione sociale, viene trasformata in un vizio caratteriale, in una debolezza psicologica, in una patologia da curare. Il trucco è geniale nella sua semplicità: invece di affrontare i problemi segnalati dai lamentosi, si attacca la credibilità di chi li segnala. Invece di chiedersi se le critiche siano fondate, si mette sotto accusa chi le formula. È la strategia del "kill the messenger" applicata su scala sociale: se non ti piace il messaggio, elimina il messaggero. E così assistiamo al paradosso di una società che celebra i grandi riformatori del passato mentre demonizza i piccoli riformatori del presente, che erige monumenti ai rivoluzionari morti mentre etichetta come "problematici" i rivoluzionari vivi. Galileo è un eroe della scienza, ma guai a mettere in discussione i dogmi contemporanei. Rosa Parks è un simbolo di giustizia, ma guai a protestare contro le ingiustizie attuali. Gandhi è un santo laico, ma guai a praticare la disobbedienza civile oggi. La verità è che la lamentela è l'anticamera del progresso, il sintomo di una mente che funziona, il segno che qualcuno si è accorto che il re è nudo. Ma riconoscere questo significherebbe ammettere che il sistema attuale non è perfetto, che esistono problemi da risolvere, che il cambiamento è non solo possibile ma necessario. E questo è un messaggio troppo pericoloso per chi trae profitto dall'immobilismo. Molto meglio convincere tutti che lamentarsi è inutile, che "è sempre stato così", che "bisogna essere realisti". Molto meglio trasformare la rassegnazione in virtù e la ribellione in vizio. Il vero pigro, infatti, non è chi si lamenta ma chi accetta tutto senza battere ciglio, chi si adatta a qualsiasi situazione senza mai chiedersi se sia giusto farlo, chi rinuncia a pensare per lasciare che altri pensino al posto suo. Il vero pigro è chi si accontenta del primo lavoro che trova, della prima casa che vede, della prima relazione che capita, della prima idea che sente. Il vero pigro è chi non si pone domande, chi non cerca alternative, chi non immagina possibilità diverse. Il vero pigro è chi dice "va bene così" quando niente va bene, chi preferisce la certezza dell'infelicità all'incertezza del cambiamento. Ma questa pigrizia viene spacciata per saggezza, per maturità, per equilibrio. Chi si accontenta viene celebrato come "una persona serena", "che sa apprezzare quello che ha", "che non è mai insoddisfatta". Come se l'insoddisfazione fosse un difetto invece che il motore di ogni miglioramento, come se la serenità fosse incompatibile con l'ambizione, come se apprezzare quello che si ha significasse rinunciare a quello che si potrebbe avere. È il trionfo dell'ideologia del "poteva andare peggio", quella filosofia del ribasso che trasforma ogni fallimento in successo relativo, ogni ingiustizia in male minore, ogni mediocrità in risultato accettabile. "Almeno hai un lavoro", dicono a chi si lamenta dello sfruttamento. "Almeno hai una casa", dicono a chi critica le condizioni abitative. "Almeno hai la salute", dicono a chi protesta contro tutto il resto. Come se l'esistenza di mali maggiori rendesse accettabili i mali minori, come se la graduatoria della sofferenza fosse una ragione valida per non aspirare alla felicità. Ma la vera ipocrisia di questo sistema è che chi predica l'accettazione passiva è sempre qualcuno che ha già ottenuto quello che voleva, che ha già raggiunto una posizione di privilegio, che ha già risolto i propri problemi lamentandosi fino allo sfinimento. Farinetti stesso è diventato ricco e famoso proprio perché non si è mai accontentato di quello che aveva, perché ha sempre cercato di fare meglio, perché ha sempre criticato lo status quo del suo settore. Ma ora che ha raggiunto il successo, predica la virtù dell'accettazione agli altri. È come se, una volta arrivato in cima alla montagna, volesse convincere chi è ancora alla base che scalare è inutile, che la vista da lassù non vale la fatica, che è meglio restare dove si è. La lamentela, in realtà, è l'unica cosa che distingue gli esseri umani dagli animali domestici. Un cane accetta qualsiasi condizione di vita purché abbia da mangiare; un essere umano dovrebbe avere l'ambizione di vivere, non solo di sopravvivere. Un gatto si accontenta di dormire al sole; un essere umano dovrebbe sognare di cambiare il mondo. Ma evidentemente c'è chi preferisce una società di animali domestici soddisfatti a una società di esseri umani insoddisfatti, chi trova più comodo gestire la passività che confrontarsi con la creatività, chi scambia la sottomissione per pace sociale. Il risultato è una società che ha paura della propria vitalità, che soffoca la propria energia creativa, che trasforma i propri figli in versioni addomesticate di se stessa. Una società che celebra l'innovazione a parole ma punisce gli innovatori nei fatti, che predica il progresso ma ostacola chi vuole farlo davvero, che si vanta della propria dinamicità ma è terrorizzata dal cambiamento. E così la lamentela, che dovrebbe essere il sale della democrazia, diventa il tabù della conformità. Chi si lamenta viene isolato, marginalizzato, ridotto al silenzio. Non con la violenza, che sarebbe troppo evidente, ma con l'arma più sottile del discredito morale. "È un lamentoso", "è un pessimista", "è un insoddisfatto cronico". Come se essere soddisfatti di un mondo imperfetto fosse un merito invece che una forma di cecità volontaria. La verità è che chi non si lamenta mai è peggio di una blatta: è un parassita che consuma il progresso prodotto dalle lamentele altrui senza mai contribuire a produrne di nuovo. È un free rider del cambiamento sociale, qualcuno che gode dei benefici delle rivoluzioni passate mentre ostacola quelle future. È un conservatore mascherato da saggio, un immobilista travestito da realista, un codardo che si spaccia per equilibrato. Ma la storia, quella vera, non si fa con l'equilibrio: si fa con lo squilibrio, con l'insoddisfazione, con la santa rabbia di chi rifiuta di accettare che il mondo sia immutabile. Si fa con la lamentela trasformata in azione, con la critica trasformata in proposta, con il no secco a quello che c'è e il sì coraggioso a quello che ci potrebbe essere.

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