ENRICO FILAVA

C'è qualcosa di profondamente affascinante nel modo in cui le canzoni popolari si prestano a letture contemporanee che travalicano le loro origini, come se i testi tradizionali contenessero un codice latente, un DNA interpretativo in grado di mutare nel tempo pur rimanendo fedele a un nucleo narrativo essenziale. È come se custodissero, sotto la superficie semplice della melodia e del racconto, una grammatica profonda della memoria collettiva, capace di parlare a epoche diverse con significati sempre nuovi. "Berta filava" non fa eccezione a questa regola: anzi, pare prestarsi in modo sorprendentemente fecondo a una rilettura politica, trasformandosi da canto popolare a parabola simbolica del compromesso storico italiano e della sua intrinseca, struggente fragilità.

Se accettiamo di leggere Berta non solo come l'archetipo femminile dell'attesa, la Penelope delle campagne, ma come figura allegorica del tessitore politico, allora il suo gesto — il filare — assume contorni quasi liturgici. Filare diventa il lavoro lento e paziente della costruzione politica, il tentativo di tenere insieme fili diversi, fragili e spesso recalcitranti, per costruire un tessuto nuovo. È un'immagine che ben si adatta al progetto del compromesso storico, quella difficile e coraggiosa operazione lanciata da Enrico Berlinguer negli anni Settanta per superare la dicotomia tra comunismo e democrazia cristiana. Un progetto che mirava non alla somma dei contrari, ma alla creazione di una nuova forma politica: più inclusiva, meno ideologica, capace di affrontare le sfide di un’Italia attraversata da crisi economiche, tensioni internazionali, terrorismo e un progressivo logoramento della fiducia democratica.

In questa rilettura, la figura del santo che non brucia al rogo diventa emblematica: è Berlinguer stesso, uomo di un’etica inflessibile, capace di attraversare le fiamme di una politica incandescente senza cedere alla corruzione, senza mai piegarsi al cinismo del potere. Berlinguer si muoveva in un panorama dominato da compromessi al ribasso, da accordi di potere opachi, da equilibri costruiti sul clientelismo e sull'opportunismo. Eppure, proprio in quel contesto, tentò un'operazione che aveva qualcosa di mistico: portare il Partito Comunista Italiano — il più grande d'Occidente — a dialogare con la Democrazia Cristiana, fino ad allora percepita come l’antagonista storico. Non si trattava solo di una strategia politica, ma di un atto di fede nella possibilità di una sintesi superiore, che superasse la logica dei blocchi e aprisse la strada a una “terza via” tra socialismo reale e capitalismo liberale.

Il filo di Berta, in questo contesto, è allora il simbolo del tentativo berlingueriano di tenere insieme le ragioni dell’uguaglianza e quelle della democrazia, le istanze del lavoro e quelle della spiritualità, la laicità della sinistra e l’anima cattolica di una parte consistente del Paese. Ma proprio come nella canzone, quel filo rischia continuamente di spezzarsi. Ogni nodo che si prova a fare — ogni patto, ogni apertura, ogni gesto di distensione — rischia di generare incomprensione, sospetto, rigetto. La sinistra radicale accusa Berlinguer di tradimento, la destra lo guarda con diffidenza, e persino all'interno del PCI le sue scelte suscitano malumori e divisioni. È la tragedia del compromesso: la sua capacità di generare soluzioni nuove è pari solo alla sua vulnerabilità, alla sua propensione a scontentare tutti, perché non corrisponde pienamente a nessuno.

La tragedia finale della canzone, con la morte dell’amato che non torna dalla guerra, si carica così di un potente valore simbolico. Il giovane che non ritorna è la speranza politica che non si realizza, il progetto che resta incompiuto. È la morte prematura di Berlinguer nel 1984, nel pieno delle sue battaglie più dure, a suggellare il fallimento parziale — ma non vano — di quell’ambizioso disegno. La sua scomparsa lascia la sinistra orfana di un’idea alta della politica, e consegna al Paese un sentimento di vuoto che, col tempo, si trasformerà in nostalgia.

Berta filava, allora, diventa molto più di una canzone d’amore popolare. Si trasforma in una sorta di requiem politico, un lamento dolente per un’epoca in cui la politica sapeva ancora essere artigianato lento, costruzione meticolosa, fede nella possibilità del dialogo. Un’epoca in cui esistevano figure capaci di incarnare una moralità pubblica intransigente, uomini che, come santi laici, attraversavano indenni i roghi dell’ideologia e della corruzione. È il tempo in cui la politica non era ancora diventata pura comunicazione, ma restava tessitura: un lavoro silenzioso, ostinato, invisibile, spesso ingrato.

In fondo, questa lettura politica della canzone non è solo un omaggio a Berlinguer, ma anche un’invocazione a recuperare una certa idea della politica: quella che ha il coraggio di uscire dai dogmi, di rischiare sintesi inedite, di tollerare l’ambiguità del reale pur di tentare qualcosa di nuovo. È la nostalgia per una stagione in cui si pensava ancora che dal confronto tra mondi diversi potesse nascere un progetto condiviso, nonostante tutto, nonostante le diffidenze e i tradimenti. È il rimpianto per un tempo in cui si poteva ancora credere che il compromesso fosse una virtù e non una colpa, una conquista dell’intelligenza politica e non una resa al nemico.

E forse è proprio questo il senso più profondo della nuova lettura di Berta filava: non solo l’elogio di un leader, ma la commemorazione di un’idea scomparsa di politica. Una politica che non temeva la complessità, che accettava di sporcarsi le mani senza perdere l’anima, che sapeva filare con pazienza, con tenacia, anche quando il telaio sembrava destinato a spezzarsi. Una politica che oggi ci appare lontana, quasi leggendaria, e che invece sarebbe quanto mai urgente riscoprire.

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