FEMMIN-ACCIDIO

Il 13 agosto 2025 Tiziana Vinci è stata uccisa dal suo ex marito a La Spezia mentre stava lavorando, un martedì come tanti altri in cui pensava di essere al sicuro dietro il bancone del suo negozio, protetta da quel divieto di avvicinamento che sulla carta doveva tenerla lontana dalla violenza di quell'uomo che aveva già dimostrato di cosa fosse capace, nonostante lui portasse un braccialetto elettronico che però non funzionava da dieci giorni - dieci lunghi, interminabili giorni in cui nessuno ha fatto nulla per rimediare a questo guasto mortale, dieci giorni in cui quel dispositivo che doveva essere la sua ancora di salvezza era diventato solo un pezzo di plastica inutile al polso di un assassino. E allora basta con il dire "non potevamo sapere", basta con le lacrime di coccodrillo dei politici che si presentano puntuali ai funerali ma spariscono quando si tratta di stanziare fondi, basta chiamarlo solo "femminicidio" perché c'è una parola che dobbiamo imparare, masticare, digerire fino a farla diventare parte del nostro vocabolario quotidiano: femmin-accidio. Il femminicidio è l'atto di uccidere una donna, il gesto finale, l'epilogo di una violenza che spesso si consuma nell'indifferenza generale, ma il femmin-accidio è molto più subdolo, più pervasivo, più colpevole perché è l'atto di non fare nulla per impedirlo, è la tendenza di una società intera a chiudere gli occhi, a voltare la testa dall'altra parte, a sussurrare "fatti loro" mentre la politica interviene solo dopo per punire, per fare le solite promesse vuote davanti alle telecamere, e quasi mai prima per prevenire, per costruire davvero un sistema che protegga. Il femmin-accidio non si compie con un coltello, con un pugno, con una pistola, ma con un modulo dimenticato in un cassetto, con un allarme che non scatta perché nessuno ha controllato le batterie, con un braccialetto che non funziona e che nessuno controlla perché tanto "non è mai successo niente", è fatto di riunioni rinviate perché ci sono questioni più urgenti, di protocolli mai applicati perché mancano le risorse, di leggi scritte con grande fanfara mediatica ma mai finanziate perché poi i soldi servono per altre priorità. È il femmin-accidio di chi sa e non parla, di chi vede i lividi e finge di non averli notati, di chi sente le urla dalla casa accanto e alza il volume della televisione, di chi riceve una telefonata disperata da un'amica e risponde "ma sei sicura? Magari hai frainteso", di chi lavora negli uffici giudiziari e tratta le denunce per stalking come pratiche di routine da sbrigare in fretta. E allora basta, basta davvero perché ogni volta che sentiamo un altro nome, un'altra storia, un altro "non potevamo immaginare", un pezzo della nostra umanità muore con quella donna, e primo: i braccialetti elettronici devono essere intelligenti, dotati di tecnologia all'avanguardia, con GPS preciso al metro, con batterie che durano settimane, con sistemi di autodiagnosi che segnalano ogni minimo malfunzionamento, e se si guastano o vengono manomessi entro trenta minuti deve scattare un allarme che coinvolge polizia, vittima e servizi sociali, un allarme che non può essere ignorato, che suona finché qualcuno non interviene fisicamente sul posto, non dopo dieci giorni, non domani, non "appena possibile" ma subito, immediatamente, perché trenta minuti possono essere la differenza tra la vita e la morte. Secondo: le donne a rischio devono avere protezioni attive, non passive, non sulla carta ma nella realtà, con app collegata direttamente alla centrale operativa della polizia, con geolocalizzazione in tempo reale che permette di sapere sempre dove si trova la vittima e dove si trova l'aggressore, con pulsante antipanico discreto ma efficace, con sistema di avviso automatico se l'aggressore si avvicina anche solo di qualche centinaio di metri, perché se possiamo tracciare un pacco Amazon dalla Cina fino alla porta di casa, se possiamo sapere in tempo reale dove si trova la pizza che abbiamo ordinato, come è possibile che non riusciamo a proteggere una vita umana? Terzo: chi ha denunce per stalking o maltrattamenti deve seguire programmi obbligatori di recupero, non facoltativi, non "se ha tempo", non "se vuole", ma obbligatori come il pagamento delle tasse, con psicologi specializzati, con percorsi strutturati, con verifiche costanti, e se non collabora, se non si presenta, se fa resistenza, allora finisce in carcere senza se e senza ma, punto e basta. Quarto: serve un database unico nazionale, informatizzato, aggiornato in tempo reale, che colleghi tutte le denunce, tutti i procedimenti, tutte le segnalazioni, così chi picchia a Milano e minaccia a Napoli viene riconosciuto ovunque, non può più nascondersi dietro la burocrazia frammentata, non può più sfruttare l'incomunicabilità tra uffici diversi per continuare a seminare terrore. Quinto: le aziende devono essere parte attiva del sistema di protezione, non spettatrici passive, con allarmi collegati alle forze dell'ordine, con telecamere di sorveglianza, con protocolli chiari su cosa fare se un dipendente è vittima di violenza, con la possibilità di cambiare sede di lavoro, di modificare gli orari, di garantire accompagnamento, perché proteggere una dipendente non è un favore che si fa per bontà d'animo ma un dovere contrattuale, morale e civile. Sesto: servono vere case protette, non quattro mura scrostate con una volontaria part-time, ma strutture sicure, sorvegliate ventiquattro ore su ventiquattro, con supporto psicologico professionale, con assistenza legale gratuita, con programmi di reinserimento lavorativo, con servizi per i bambini che spesso sono coinvolti in questi drammi, dove nessuna donna deve aspettare mesi in lista d'attesa per un posto sicuro mentre il suo aggressore gira libero. Settimo: educazione vera nelle scuole, fin dall'asilo, fin dai primi anni, non due ore di educazione civica buttate lì tanto per dire che si fa qualcosa, ma programmi seri, continui, strutturati su rispetto, parità, relazioni sane, gestione della rabbia, riconoscimento delle emozioni, perché la violenza si impara da piccoli e da piccoli si può disimparare, perché se insegniamo ai bambini che picchiare è sempre sbagliato, che le donne non sono proprietà di nessuno, che l'amore non è possesso, forse un domani avremo meno mostri da fermare. Ottavo: giudici formati specificatamente su questi temi, non improvvisati, non "tanto è sempre violenza domestica", ma preparati a riconoscere i segnali, a valutare il rischio, a prendere decisioni rapide ed efficaci, con processi che si concludono in tempi ragionevoli, non dopo anni di udienze rinviate, e basta con le attenuanti ridicole, con i "era ubriaco", "era stressato dal lavoro", "era geloso", come se la gelosia fosse una giustificazione per ammazzare. Nono: sostegno economico immediato per chi denuncia, perché spesso le donne non denunciano per paura di non riuscire a mantenere i figli, perché l'aggressore controlla anche i soldi, perché lasciare significa spesso cadere in povertà, e allora serve un reddito di protezione, temporaneo ma sufficiente, per non costringere nessuna a scegliere tra la dignità e la sopravvivenza, tra la sicurezza e il cibo per i figli. Decimo: la violenza contro le donne deve essere riconosciuta come quello che è, un problema di sicurezza pubblica, una priorità nazionale, un'emergenza sociale, e ogni cittadino ha il dovere morale e civile di riconoscerla, di segnalarla, di non voltarsi dall'altra parte quando sente urlare, quando vede i lividi, quando una collega arriva sempre con gli occhiali da sole anche quando è nuvoloso. Sì, tutto questo costa, costa parecchio in termini di investimenti, di personale, di strutture, di tecnologia, ma costa molto di più, infinitamente di più, continuare a seppellire donne ammazzate, continuare a piangere lacrime inutili su bare che si potevano evitare, costa in vite umane stroncate, in bambini che crescono senza mamma, in traumi che si trasmettono di generazione in generazione, in fiducia persa nelle istituzioni che dovrebbero proteggerci, perché ogni volta che una donna muore per femmin-accidio un pezzo del contratto sociale si rompe, un pezzo della nostra civiltà si sgretola. Tiziana Vinci è morta per colpa di un femmin-accidio sistemico, non solo per la mano violenta di quell'uomo che l'ha uccisa ma per l'inerzia colpevole di un sistema intero che aveva tutti gli strumenti per proteggerla e non l'ha fatto, che sapeva del pericolo e ha scelto di non vedere, che aveva il braccialetto elettronico rotto e ha deciso che dieci giorni di attesa non erano poi così tanti. Il femmin-accidio è quando si aspetta il prossimo nome da aggiungere alla lista infinita, quando nei cassetti degli uffici giacciono pratiche inevase, quando si prepara già il comunicato stampa di circostanza per il "dopo" ma non si fa assolutamente nulla di concreto per evitare il "prima", quando si convocano summit e tavoli tecnici che partoriscono documenti che nessuno leggerà mai. È ora di smettere di essere complici silenziosi di questa strage, è ora di passare definitivamente dalla logica della punizione a quella della prevenzione, dalla cultura dell'emergenza a quella della programmazione, perché la prossima potrebbe essere vostra sorella che lavora in quel negozio del centro, vostra figlia che ha appena lasciato quel ragazzo che la controllava troppo, vostra moglie che ha finalmente trovato il coraggio di dire basta, vostra madre che dopo quarant'anni di matrimonio ha scoperto che l'amore non dovrebbe fare male, e allora quando succederà non parleremo più di chiacchiere da bar, di solidarietà da social network, di minuti di silenzio che non servono a niente, ma parleremo di colpe precise, di responsabilità individuali, di chi sapeva e non ha fatto, di chi poteva intervenire e ha scelto l'indifferenza, perché il femmin-accidio ha nomi e cognomi, ha facce e indirizzi, ha uffici e scrivanie, e fino a quando non avremo il coraggio di chiamare le cose con il loro nome continueremo a contare le morte invece di salvare le vive.

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