FINCHÉ C'È UNA DIVINITÀ C'È SPERANZA

Un tempo era Dio a dirti cosa potevi o non potevi mangiare. Oggi, è l’algoritmo.

Nel mondo, circa 900 milioni di persone seguono una dieta vegetariana o vegana — 800 milioni vegetariani e 100 milioni vegani — molti dei quali per motivi religiosi. Sono una minoranza rispetto ai quasi 8 miliardi di esseri umani, ma una minoranza significativa, che per secoli ha ridotto [consapevolmente o meno] l’impatto ambientale del proprio stile alimentare. La fede, da questo punto di vista, ha agito come un freno culturale: niente carne, soprattutto se “impura” o difficile da produrre senza devastare foreste e fiumi.

Ma il mondo sta cambiando. E lo fa a una velocità antropologicamente vertiginosa. Internet, social network e la globalizzazione dei desideri stanno progressivamente scardinando le strutture morali e spirituali che regolavano l’alimentazione in molte culture. Sempre più persone mettono in discussione l’esistenza della divinità, o semplicemente la ignorano, considerandola una faccenda obsoleta. Non è solo una crisi religiosa: è una trasformazione culturale profonda.

Ed è proprio in questa transizione che si apre un vuoto. Perché dove crolla la fede, spesso non resta nulla: né tabù, né limiti, né senso del “basta così”. In assenza di una cornice spirituale o culturale che orienti le scelte, l’individuo moderno si trova libero — o meglio, disorientato — in un mondo dove tutto è teoricamente concesso. Anche il consumo smodato di carne, un tempo considerato proibito, immorale o riservato a pochi privilegiati, diventa oggi un “diritto da recuperare”.

Questo fenomeno non riguarda solo il cibo. Lo vediamo anche nella questione ambientale: i Paesi in via di sviluppo, dopo secoli di sfruttamento coloniale e disparità economiche, reclamano il loro “momento di benessere”. E se questo comporta inquinare, consumare, imitare lo stile di vita occidentale... pazienza. “Avete inquinato per secoli,” sembrano dire, “ora tocca a noi.” E così, assistiamo a una sorta di corsa collettiva verso il nostro stesso modello fallimentare, con l’unico obiettivo di avere, per qualche decennio, ciò che noi abbiamo avuto per secoli.

Lo stesso vale per la carne. Il desiderio di riscatto sociale nei Paesi emergenti si manifesta anche nel piatto. In Cina, ad esempio, la produzione di pollame e suini è aumentata del 50% negli ultimi anni, e la tendenza non accenna a rallentare. Mentre in Occidente si dibatte su etica, diritti animali e allevamenti sostenibili, altrove cresce la fame di carne come simbolo di ascesa, successo e modernità.

Eppure, proprio in questo scenario apocalittico — fatto di risorse al limite, ecosistemi collassati e abitudini alimentari impazzite — l’Occidente, paradossalmente, sta tentando una svolta. O meglio: un ritorno. Sta riscoprendo fonti alimentari antiche, poco inquinanti, poco esigenti in termini di acqua ed energia. Gli insetti.

Sì, proprio loro: cavallette, larve, grilli. Cibo povero in alcune culture, schifato in altre, ma oggi oggetto di studi, investimenti e tendenze gourmet. Non è la prima volta che l’Occidente riesce a “nobilitare” ciò che un tempo disprezzava: la bistecca, un tempo privilegio per pochi, è diventata mainstream, e le élite hanno riscoperto la ribollita, la pappa al pomodoro, la pearà veronese — trasformando la cucina povera in esperienza esclusiva da trattoria chic.

Ora tocca agli insetti. E se oggi l’idea provoca disgusto, un domani potremmo guardare con orrore chi addenta una bistecca come oggi guardiamo i documentari sui Neanderthal che divorano carcasse crude. L’inversione dei valori è già iniziata: ciò che oggi fa orrore potrebbe presto fare tendenza. E chi mangia insetti potrebbe essere invidiato come simbolo di intelligenza ecologica, sofisticazione culturale, lungimiranza ambientale.

Ironia della sorte, dunque: mentre il mondo perde i suoi antichi tabù, l’Occidente li reinventa sotto forma di etica ambientale. E chi un tempo pregava per non mangiare carne, potrebbe ritrovarsi in fila al fast food per un hamburger... di cavallette.


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