SAPORE DI "AMARO"

La Divinità ha dato alla sua Creatura la libertà di nominare il resto del Creato, trovando questa scelta giusta e appropriata. Insomma, era necessario per l’Uomo — e solo per lui — potersi rivolgere alla Divinità e, successivamente, agli altri uomini in modo chiaro e inequivocabile. Sebbene in seguito siano stati usati termini diversi [la Bibbia colloca questo momento a partire da Babele], il significato delle parole è comunque rimasto invariato.

Una mela resta tale anche se la si chiama "apple" [Shakespeare docet].


Il problema è sorto, tuttavia, quando l’Uomo ha iniziato a nominare se stesso e gli altri uomini, introducendo nella linguistica “sostantivi” e “aggettivi” che hanno portato a una complessità del linguaggio che va oltre la semplice comunicazione, innescando pregiudizi e categorizzazioni.


Da quel preciso momento l’Uomo non era semplicemente “UOMO”, ma diventava qualcos’altro.

Quando si introducono differenze nel modo di indicare se stessi e gli altri, si finisce inevitabilmente per aumentare l’altezza e lo spessore dei muri che innalziamo fra di noi, e diventa difficile comunicare attraverso un muro.

L’Uomo ha anche la sottile capacità di modificare i significati delle parole, agendo sul tono della voce, sui contesti e sul tempo.

Parole nate con un’accezione positiva e capace di ispirare il buonsenso finiscono per acquisire un significato negativo e divisivo. Ciò accade perché, nella naturale contrapposizione delle idee, l’Uomo tende a difendere la propria posizione enfatizzando gli estremi, come in una gara di tiro alla fune dove si impugnano i capi della corda e non la parte centrale.

Gli esempi sono numerosi. Pensiamo all’Ambiente, all’Ecologia, al rispetto delle Persone, e così via.

Questa predisposizione dialettica porta inevitabilmente a un pregiudizio che, purtroppo, solletica la “pancia” dell’elettorato.

La Politica ne è consapevole e cerca solo il consenso dell’elettorato attivo; il resto della popolazione non ha importanza.

Un tentativo di spostarsi verso il centro della fune, per mantenere la metafora, è rappresentato dal “politicamente corretto”.

Un termine nato con un’accezione positiva, di rispetto e buonsenso, associato alla buona educazione, ma che si è trasformato in un termine negativo, considerato addirittura illiberale e limitante il “diritto all’odio”, per dirla alla Vannacci.

Il “politicamente corretto” è fondamentalmente buona educazione. Nessuno — o almeno spero — si rivolgerebbe a una persona sconosciuta usando termini che potrebbero offenderla, a prescindere dall’evidenza oggettiva di una sua condizione.

Ad esempio, non saluterei una persona calva con un “Buongiorno, pelato”.

Quando si parla di “politicamente corretto” ci si riferisce alle relazioni fra noi e gli altri sconosciuti, non a coloro che conosciamo personalmente, con i quali abbiamo rapporti di amicizia che consentono una maggiore libertà di espressione.

La fallacia argomentativa di chi è contrario al “politicamente corretto” sta nel portare esempi personali e contestualizzati di situazioni fra amici o conoscenti, persone che non si offendono se ci si rivolge a loro con certi termini.

“Io al mio amico di colore, quando siamo fra amici, lo chiamo negro e lui mica se la prende…” “Io al mio amico con problemi di deambulazione lo chiamo storpio e lui non se la prende…” “Io al mio amico omosessuale lo chiamo frocio e lui non si offende, anzi, ci ride sopra.” E quindi, perché non posso usarli tranquillamente in pubblico, senza temere denunce o biasimo?

Le cose cambiano, però — almeno si spera — se da un contesto privato ci si sposta in uno pubblico, dove potrebbero esserci persone disabili, di colore o omosessuali, indipendentemente dalla loro visibilità.

Per educazione e rispetto verso chi non conosciamo e con cui non abbiamo rapporti di amicizia, eviteremmo di usare questi termini.

Poi esistono anche eccessi di “buona educazione”, ma appunto, si tratta di eccessi e il punto di riferimento rimane sempre il Buonsenso.

Di recente Jerry Calà ha ricordato con nostalgia i tempi in cui, nei suoi film, era possibile utilizzare linguaggi e stereotipi senza timore di critiche o stigmatizzazioni per il “politicamente scorretto”.

In quei film il personaggio sovrappeso era sempre rappresentato con un panino gigante in mano, goffo e preso in giro; la ragazza brutta era evitata da tutti e ignorata alle feste; l’omosessuale enfatizzava movenze effeminate e veniva coinvolto in situazioni ambigue; il personaggio di colore parlava come Mamy di “Via col vento”, e così via.

Ricordo quei film e anche come situazioni simili si ripetessero nel mio gruppo di amici, con il ragazzo sovrappeso o la ragazza meno attraente, e oggi provo vergogna per non aver preso le loro difese o per non aver capito che, dietro quei sorrisi di circostanza, vi era spesso una profonda sofferenza. 

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