LA FORTUNA DI ESSERE GLI ULTIMI
"Beati gli ultimi perché saranno i primi": uno dei passi più noti e citati del Vangelo, spesso richiamato per consolare o auto-motivarsi in situazioni di svantaggio. Tuttavia, ci si limita di frequente a questo incipit senza completare la frase: "... nel Regno dei Cieli". In questo modo, la consolazione si sposta su un piano ultraterreno, posticipando la giustizia o il riscatto a una realtà futura, oltre la vita terrena.
Un altro aspetto fondamentale di questa massima è il suo implicito affidarsi alla misericordia altrui, rappresentata, in questo caso, da una Divinità che ama, protegge, guida, ma che, al contempo, punisce come un Padre severo. Questo pone un interrogativo: se volessimo migliorare la nostra condizione da "ultimi" nel presente, non dovremmo forse fare affidamento su noi stessi o, in una visione collettiva, sulla nostra società?
Per chi ha Fede, la massima evangelica può rappresentare una speranza trascendentale. Ma per chi vive il presente – sia esso credente o meno – il cambiamento deve partire dall’azione concreta. Non ci si può limitare ad aspettare un riscatto ultraterreno, né delegarlo a interventi estemporanei o alla "misericordia" di chi governa.
"Beati gli ultimi", dunque, potrebbe non essere solo un monito spirituale, ma anche un invito a riconoscere il potenziale di crescita e trasformazione insito nelle situazioni di svantaggio, a condizione di saperle leggere con intelligenza e di agire con lungimiranza.
Essere "ultimi", soprattutto in ambito sociale, non è sempre una condizione negativa. Può significare trovarsi in una posizione di osservazione privilegiata, che permette un approccio analitico e scientifico ai problemi. È un po’ come avere accesso a uno studio già avviato: con i dati disponibili, possiamo evitare errori passati e trarre vantaggio dalle esperienze positive.
Un esempio emblematico è quello delle periferie delle grandi città, aree troppo spesso identificate come il simbolo del degrado urbano.
Le periferie, storicamente, hanno incarnato un doppio isolamento: fisico e sociale. Lontane dal cuore pulsante dell'economia cittadina, ridotte a meri dormitori, sono spesso abbandonate alle logiche del malaffare e del degrado. Nonostante ciò, le esperienze condotte in altre città del mondo – veri e propri "laboratori urbani" – hanno fornito una vasta gamma di soluzioni e avvertimenti. Mostrano chiaramente cosa funziona e cosa, invece, conduce al fallimento.
Eppure, il ciclo sembra ripetersi: ci si ricorda delle periferie solo in occasione di eventi di cronaca, quando esplode il malcontento o si verificano episodi drammatici. In quei momenti si interviene frettolosamente, con misure spesso insufficienti o dettate dalla necessità politica di "mettere una toppa". Si ignorano, però, le cause profonde, che affondano le radici in una pianificazione urbanistica sbagliata o nell'assenza di visione strategica.
Una delle più grandi opportunità sprecate è quella di imparare dagli errori. Le periferie non devono necessariamente rimanere luoghi di marginalità: potrebbero diventare fulcri di innovazione sociale, culturale e urbanistica. Purtroppo, la progettazione delle città continua a ignorare le lezioni del passato, riproducendo gli stessi problemi: mancanza di servizi, carenza di spazi di aggregazione, trasporti insufficienti.
A tutto ciò si aggiunge un ulteriore problema: la diffusione di odio alimentata da parte della politica e di certi media verso gli immigrati, spesso indicati come i responsabili di ogni disagio sociale. Questo clima avvelenato non solo distoglie l'attenzione dalle reali cause strutturali dei problemi, ma impedisce anche un sereno e costruttivo dibattito. Le narrazioni xenofobe, che alimentano divisioni e paure, ostacolano la ricerca di soluzioni inclusive e solidali, necessarie per una società più giusta e coesa.
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