UN CAFFÈ CON TERSITE
GABBIA STELLARE
L’ultimo razzo si sollevò dalla piattaforma di lancio con un rombo assordante, attraversando il cielo notturno come un proiettile di luce. Le fiamme spingevano il veicolo verso l'infinito, mentre una colonna di fumo si stagliava contro la luna piena. Suo figlio, Noah, stringeva il binocolo con le mani tremanti. Gli occhi scintillavano di eccitazione, riflettendo la luce dei motori a combustione.
"Papà, quanti sono adesso?" chiese con la voce tremante di entusiasmo.
L’uomo guardò il tablet, dove un contatore aggiornava in tempo reale il numero dei satelliti in orbita. “Settemila, Noah. Ma ne metteranno molti di più,” rispose, cercando di mantenere una calma che non sentiva.
Noah sorrise. “Sono bellissimi, no? Come una rete luminosa intorno alla Terra.” I suoi occhi si riempivano di meraviglia, immaginando i punti luminosi che abbellivano il cielo.
Il padre sospirò, sentendo il peso delle sue preoccupazioni. "Sì, sono bellissimi." Ma dentro di sé, sapeva che quella rete non era un ornamento. Era una prigione invisibile che si stringeva sempre più attorno al pianeta.
Con il progetto finale, la costellazione WebStar avrebbe raggiunto i quarantaduemila satelliti. Un’impresa titanica, un miracolo dell’ingegneria umana. Ma ogni lancio portava con sé una domanda scomoda: a cosa serviva davvero?
Le comunicazioni globali erano già perfette. La connessione non era mai stata così stabile. La scusa ufficiale era portare internet nei luoghi più remoti del pianeta, ma chi davvero ci credeva? L’uomo sapeva che c’era di più dietro quelle promesse patinate.
Le prime teorie del complotto avevano iniziato a circolare anni prima, ridicolizzate dai media. Parlare di "sorveglianza globale" o "controllo dello spazio" sembrava roba da paranoici. Ma quando i lanci si intensificarono e le orbite iniziarono a saturarsi, i dubbi divennero certezze per chi sapeva leggere tra le righe.
Non era solo una rete per comunicare. Era una gabbia dorata, invisibile agli occhi, ma implacabile nel suo scopo.
Noah continuava a scrutare il cielo, felice come un bambino davanti a un albero di Natale. “Quando li finiremo, potremo andare su Marte, vero?” La sua voce era piena di speranza e aspettativa.
Il padre guardò suo figlio e sentì un nodo stringergli la gola. Gli avevano raccontato che quelle stelle artificiali erano il primo passo per il grande balzo verso lo spazio. Ma come potevano fuggire, quando ogni traiettoria era monitorata, ogni azione controllata?
"Noah, ascoltami bene," disse l’uomo, inginocchiandosi per guardarlo negli occhi. "Quello che stanno facendo lassù non è per portarci via da qui. È per tenerci dentro."
Il bambino lo guardò confuso, la fronte aggrottata. "Dentro cosa?"
"Questa," rispose il padre, indicando il cielo stellato, "non è una rete di salvezza. È una prigione dorata. Ogni satellite là fuori può tracciare, monitorare e, se necessario, impedire a chiunque di partire senza permesso. Chiunque cerchi di fuggire sarà fermato."
Noah abbassò il binocolo, finalmente percependo la gravità di quelle parole. "Ma perché? Non vogliono che andiamo su Marte?"
Il padre sorrise amaramente, triste per la perdita dell'innocenza del figlio. "Andremo su Marte, sì. Ma solo quelli che loro scelgono."
Il silenzio calò tra i due, rotto solo dal fruscio delle foglie mosse dal vento freddo della notte. Sopra di loro, i satelliti brillavano come occhi onniscienti, silenziosi guardiani di un’umanità ignara.
Il sogno di esplorare le stelle era diventato il mezzo perfetto per imprigionare chi, nel frattempo, rimaneva. Il cielo, una volta simbolo di libertà e possibilità infinite, era ora una cupola scintillante di controllo e sorveglianza.
Commenti
Posta un commento