“Paradiso Perduto” di Milton


[Testo e regia di Rosario Diana – Musica di Rosalba Quindici] 

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Dunque, questa è la sede che abbiamo conquistato contro il fulgore del cielo. Intorno a noi, fiamme che non danno luce; tenebre roventi in cui si agitano visioni di sventura e fumi di zolfo pungenti e maleodoranti tormentano i sensi. Quanto è diverso questo luogo da quello da cui siamo precipitati! La mia sorte è ormai segnata.

Sono condannato al dolore eterno. Come potrei soffrire di più in questo abisso in cui mi trovo? Quale pena peggiore potrei patire? Ma il destino mi riservava un tormento ulteriore. Un altro ancora.

La nostalgia, il rimpianto della felicità perduta. Nei miei occhi si fece strada un’afflizione immensa, lo sgomento, l’odio tenace e l’orgoglio ferito che nulla può placare. Non posso sperare nell’estinzione naturale della sofferenza.

La morte non fa parte della mia natura. Sono condannato all’eternità. Ovunque fugga, vi è sempre inferno.

Perché io sono l’inferno.

Mi ripresi presto: noi spiriti siamo vitali in ogni nostra parte. Nuove energie possono scaturire dalla forza della disperazione. Che importa se la battaglia è perduta? Non tutto è perduto. La volontà resta indomabile.

Il disegno della vendetta non muta. L’immortale non svanisce. Si può non essere vinti, nonostante la disfatta.

E così sia. Addio, campi felici, dove la gioia regna eterna. Addio, campi felici…

A voi, salute, orrori. E tu, profondissimo inferno, accogli ora il tuo re. Un re la cui mente né tempo né luogo potranno mai mutare.

Qui, almeno, noi ribelli saremo liberi. Il Padre non ci ha confinato in questo luogo per poi dovercelo anche invidiare. Non saremo scacciati: lo governeremo.

Meglio regnare all’inferno che servire in cielo.

Non mi pento. Dovrei forse inginocchiarmi e implorare pietà? Una simile umiliazione mai potrà essere estorta da me, neppure con tutta la furia del Padre. Sarebbe una vergogna più grande della stessa caduta.

Nessuna vera riconciliazione può esistere là dove marciscono le ferite delle aspirazioni negate. Il Padre lo sa, e io pure.

Giunsi infine nell’Eden, e fui abbagliato dal sole. Odiai profondamente i suoi raggi, che rinnovavano in me il ricordo dello stato beato e radioso da cui ero precipitato. "Perché mai ho osato sfidare il Padre?", mi domandai. La coscienza — forse solo una parola inventata dai deboli per intimorire i forti — non riesco comunque a ignorarla.

Non mi pento.

Lui, che mi aveva creato com’ero, innalzato in luminosa eminenza… dovrei forse inchinarmi? Anche il colpo che egli infisse a me, suo futuro figlio, è stato un’umiliazione peggiore della caduta stessa. Dentro di me, il suo bene si mutò in male. Eppure, a chi compie atti irrevocabili, si addice il silenzio.

Le azioni senza rimedio non meritano rimpianto. Ciò che è fatto è fatto. Allora, perché insisto nel rammaricarmi?

Il Padre ci voleva felici, entro un confine ben tracciato da un divieto. Imponeva a noi un compito difficile: guardare il limite da vicino — l’albero della conoscenza era lì, di fronte a me — e, al tempo stesso, vincere la tentazione di oltrepassarlo.

Non tutto nell’Eden era per loro. Ma già le tenebre incombevano da ogni lato.

Perché non ti scacciai col piede? Non potevi… o non volevi.

E non era questione di tracotanza o superbia. Le mie parole incontravano la tua inquietudine d’essere umano. La tua aspirazione a superarti.

Tu, perenne incompiuta… Ti feci credere che, mangiando il frutto, i tuoi occhi si sarebbero fatti chiari e acuti. Che sareste diventati simili a Dio, come Lui.

Capaci di conoscere il bene e il male.

Cieca… cieca, cieca!

Intontita da un sogno di luce. Pazza! Ma hai ragione, lo confesso: ero incuriosita e mossa dal desiderio di potenziare sensi e intelletto.

Dunque, non cieca, Eva, ma… conseguente. Ricordi il ragionamento? Se voi diventerete simili a Dio, nella misura in cui io, serpente, sono simile all’uomo — almeno nel mio intimo — allora avremmo raggiunto la giusta proporzione. Io passo dall’animale all’umano, voi dall’umano al divino.

Certo che ricorda. Riuscissi persino a trasformare la morte in una nuova nascita.

Cos’è, infatti, abbandonare la natura umana per assumere quella divina, se non una morte desiderabile, per quanto spaventosa? Così pensai… e addentai con decisione il frutto che già stringevo nella mano tremante. Subito, gli occhi — prima offuscati — mi si aprirono. Lo spirito si dilatò. Mi sentii sollevare verso il divino e intonai il mio canto.

Oh tu, il migliore dei frutti, benché negato all’uomo! Senza dubbio, le tue virtù sono grandi. Pianta maestosa! Il Padre stesso ti onora, chiamandoti albero della conoscenza.

Il suo divieto, più che scoraggiarci, ci spingeva a cercarti, per il danno sperato. La conoscenza più compiuta del bene — unita alla cognizione del male. Non è forse questa più consona alla nostra intelligenza umana, piuttosto che una beatitudine pura, protetta da un’obbedienza cieca?

Ora che ho assaporato il gusto del frutto proibito, la mia condanna è morire. Ma muore forse il serpente? Egli l’ha mangiato, eppure vive, parla, conosce, ragiona, discerne.

Lui, che era un essere irrazionale. Solo per noi, dunque, è stata inventata la morte?

Questo cibo dell’intelletto non può essere negato a noi e concesso agli animali. Ma ora… come apparirò davanti ad Adamo?

Devo rivelargli subito il mutamento e renderlo complice della mia felicità? O sarà meglio conservare per me sola i benefici ottenuti dalla conoscenza, senza condividerli? Potrei, così, attirare ancor più il suo amore, forse perfino superarlo… e questa sarebbe una conquista assai desiderabile.

Infatti, chi è inferiore… può davvero dirsi libero?

Ora che tutto è compiuto, e le nostre differenze e affinità si sono fatte più nette, riconosci te stesso, Padre, con tutta la tua perfezione, di fronte a questa donna della terra e a quest’uomo della terra… così come noi riconosciamo la nostra insufficienza nel riflesso abbagliante della tua compiutezza.

Così, quest’epopea di sogno troverà la sua ragione d’essere.

Di’ una parola, Padre.

Ti prego… rispondimi.

Commenti

  1. Divino e Maestoso... l'uomo e Dio... la ricerca... il senso... la morte

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    Risposte
    1. Il Satana di Milton non è solo un ribelle, è l’eco dell’uomo che rifiuta il limite. Non il male in sé, ma il pensiero che osa troppo.

      In Paradise Lost, il diavolo non cade per odio, ma per volontà. L'inferno è la mente che non accetta di essere seconda.

      Satana dice: Meglio regnare all’Inferno che servire in Cielo.’ Ma Milton ci chiede: è davvero Libertà , o solo l’illusione più tragica?

      Il Satana di Milton è una domanda mascherata da personaggio: fino a che punto può spingersi l’ambizione prima di diventare rovina?... 😞

      Un vero capolavoro.... 🙏

      Elimina

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