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Sette euro e dieci centesimi: il prezzo dell’arroganz. Sette euro e dieci centesimi. Una cifra che, di per sé, non dice nulla. Ma quando la associ a una fetta di pizza margherita – non quella fragrante di Napoli, non quella artigianale con lievitazione di trentasei ore, mozzarella di bufala DOP e pomodoro San Marzano, ma una fetta anonima, rinsecchita, venduta in un Autogrill – allora quella cifra diventa un simbolo. Un simbolo di abuso, di mediocrità e di un Paese che, nelle piccole cose, ha smesso di rispettare i propri cittadini.Questa non è una pizza. È un pezzo di cartone croccante, con una spennellata di pomodoro e una spruzzata di formaggio indefinito. È un prodotto che non ha nulla a che fare con il valore, concetto che, come professionista, conosco bene. Il prezzo è solo un numero; il valore è ciò che quel numero rappresenta: l’esperienza, la cura, l’unicità. Ma qui non c’è nulla di tutto questo. Qui c’è solo l’arroganza di chi sa che, in quel momento, in quel luogo, non hai alternative.L’Autogrill è l’emblema perfetto di questa dinamica, un microcosmo che riflette un’Italia che ha smesso di difendere il cittadino per sfruttarlo. È il tempio della mediocrità a caro prezzo: il caffè bruciato a un euro e cinquanta, il panino con la cotoletta molle che sa di plastica, la bottiglietta d’acqua da mezzo litro a due euro e settanta. È un sistema che non si basa sul bisogno, ma sull’assenza di scelta. Sei stanco, sei affamato, sei in viaggio. E loro lo sanno. Ti servono un “prodotto” come fosse normale, come fosse giusto. Ma non lo è. Sette euro e dieci centesimi per una fetta di pizza che non vale nemmeno cinquanta centesimi sono un affronto. È il prezzo di un piatto di pasta in una trattoria, di due pizze al taglio mangiate in piedi nel centro di Roma, di un pranzo intero per una famiglia in una mensa popolare. È una cifra che stride con il buon senso, che umilia chi la paga. Eppure, la paghiamo. Ogni giorno, migliaia di persone si rassegnano, ingoiano il boccone – letteralmente e metaforicamente – e vanno avanti. Perché il vero problema non è solo il prezzo, ma l’indifferenza. Abbiamo smesso di indignarci. Abbiamo normalizzato l’abuso, perché ci è stato servito così tante volte da sembrare inevitabile.Questa dinamica non è casuale. È il risultato di un monopolio naturale, di un sistema che non compete, non migliora, non innova. L’Autogrill, con la sua presenza capillare lungo le autostrade italiane, non ha bisogno di offrire qualità. Non deve conquistare il cliente, perché il cliente è già lì, intrappolato. È la logica del “prendere o lasciare”, che si perpetua perché nessuno – né lo Stato, né le associazioni dei consumatori, né noi – fa nulla per cambiarla.E mentre l’Autogrill prospera sulla rassegnazione, le realtà che producono davvero valore arrancano. Le botteghe artigiane chiudono, i piccoli ristoratori che lavorano con passione e cura faticano a sopravvivere. È un paradosso crudele: chi si sforza di offrire qualità spesso soccombe, mentre chi specula sull’assenza di alternative trionfa. Questo non è un caso isolato, ma un sintomo. È il termometro di un Paese che ha dimenticato la dignità, anche nelle piccole cose.Perché la dignità non sta solo nei grandi ideali, ma anche nel rifiuto di accettare l’inaccettabile. Si può pagare tanto per un’esperienza che lo merita, ma non si può accettare di essere presi in giro. Sette euro e dieci centesimi per una fetta di pizza margherita in Autogrill non sono solo un prezzo: sono un insulto. La differenza tra valore e abuso è sottile, ma non quanto quella pizza. È ora di smettere di rassegnarci e ricominciare a pretendere rispetto, non solo per il nostro portafoglio, ma per la nostra dignità di cittadini.
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