GIANO BIFRONTE
In effetti, più che un’economia solida, è una specie di illusione ottica: il debito pubblico continua a lievitare, ma nessuno si agita troppo, finché la BCE gioca alla fatina buona e spruzza liquidità come fosse glitter su un disegno precario. I grandi investitori osservano e decidono se essere clementi o trasformarsi in squali affamati: dopotutto, chi si cura se l’edificio Italia ha crepe nei muri? Basta che la facciata regga. E magari, con una mano di stucco qua e là, ci scappa pure l’upgrade di Moody’s.
Ma basta scendere dal piano attico della finanza per mettere i piedi nel fango dell’economia reale. Qui l’atmosfera cambia: c'è puzza di freni tirati, innovazione che arranca, e imprese che combattono come gladiatori in un’arena globale con armature fatte di carta. Le famiglie, intanto, giocano al gioco dell’oca con le bollette, sperando di non finire nella casella “affitto aumentato”. L’inflazione? Una simpatica presenza fissa, come il vicino rumoroso che nessuno riesce a sfrattare.
Eppure, a guardarli da lontano, questi problemi sembrano piccoli dettagli. I numeri fanno bella figura nei report, le conferenze stampa rassicurano, e intanto la forbice tra chi può permettersi l’estate a Portofino e chi sogna un ventilatore nuovo si allarga come un sipario tragico.
Il paradosso è servito: due binari paralleli, due mondi che si ignorano cordialmente. Come un Giano Bifronte, due sguardi divergenti e opposti. Da una parte la finanza, che parla in euro e spread e si nutre di grafici a torta; dall’altra l’economia reale, che parla in turni di lavoro, rincari al supermercato e autobus che non passano mai. L’Italia, insomma, è perfettamente globalizzata… purché non si parli di infrastrutture, innovazione o giovani. Quelli devono aspettare – o emigrare.
E la politica? Si muove tra rassicurazioni a Bruxelles e promesse in campagna elettorale, con l’agilità di chi deve ballare il tip-tap su un campo minato. Ogni governo gioca al solito sport nazionale: posticipare le riforme finché non diventa inevitabile, e poi dire che non ci sono le condizioni. Intanto, i cittadini aspettano un segnale, una visione, o almeno un modulo più semplice per aprire un’attività.
E la filosofia? Beh, anche quella ha qualcosa da dire. Perché a un certo punto ci si chiede: può un Paese dirsi “stabile” se la sua gente fatica a vivere con dignità? Se il benessere si misura più in spread che in speranze? L’Italia sembra il prototipo di questa modernità liquida, dove i capitali scorrono e le persone galleggiano – o affondano.
In fondo, la vera sfida non è economica, ma culturale e politica: rimettere al centro le persone, non solo gli indicatori. Ricostruire, oltre la facciata, un Paese che non si accontenti di sopravvivere, ma voglia tornare a crescere davvero. Con riforme, investimenti e, magari, un po’ di visione.
In conclusione, l’Italia è un laboratorio vivente di paradossi: stabile ma instabile, ricca ma affaticata, bella ma stanca. E per uscirne non basteranno pacche sulle spalle o piani triennali dai nomi altisonanti. Servono riforme vere, investimenti veri, e una buona dose di coraggio – non solo per i politici, ma anche per chi continua a credere che questo Paese possa diventare qualcosa di più di un monumento al “ce la caviamo sempre”.
Perché sì, i conti possono anche quadrare. Ma se nel frattempo la vita quotidiana diventa un esercizio di sopportazione, forse c’è qualcosa che abbiamo dimenticato di mettere a bilancio.
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