"Γνῶθι τὸν ἄλλον" [Gnôthi tòn állon].
Viviamo in un tempo in cui il contatto con l’altro è insieme inevitabile e problematico. Le migrazioni, la globalizzazione e la crescente pluralità religiosa e culturale ci pongono di fronte alla sfida di convivere nella differenza. Ma cosa significa, concretamente, educare i giovani a questa convivenza? Una recente esperienza vissuta da una scolaresca trevigiana offre uno spunto prezioso per riflettere su questo tema.
In un’epoca segnata dalla frammentazione culturale e dalla moltiplicazione di identità spesso percepite come inconciliabili, il semplice gesto di una scolaresca che visita un centro islamico assume una rilevanza ben più profonda di quanto possa apparire. Non si tratta soltanto di un’iniziativa didattica, ma di un’esperienza simbolica e formativa, capace di incidere nel tessuto stesso della convivenza civile.
Incontrare l’altro, ascoltarne la voce, varcare la soglia del suo spazio simbolico – in questo caso, un luogo di culto – è un atto di riconoscimento. Ed è proprio il riconoscimento, inteso come apertura al volto e alla parola dell’altro, che costituisce la base di ogni etica della convivenza. In tal senso, la visita di una classe a un centro islamico è un piccolo ma eloquente esempio di educazione all’alterità, che è anche, in ultima analisi, educazione alla democrazia.
La democrazia, infatti, non vive soltanto di norme, elezioni o procedure: vive di relazioni. E si rafforza ogni volta che si abbattono barriere simboliche, che si superano le paure costruite dalla distanza o dall’ignoranza. È in questo senso che l’educazione interculturale, quando è autentica e non solo enunciata, diventa un atto politico, nel significato più alto del termine: contribuisce cioè alla costruzione della polis, della comunità condivisa.
I giovani, protagonisti di questa esperienza, hanno potuto confrontarsi con storie, linguaggi e sensibilità differenti, ma non estranee. Hanno visto incarnarsi, nelle parole e nei gesti della comunità islamica, un’umanità che li riguarda, che interroga le loro certezze e amplia il loro orizzonte. Questo tipo di apprendimento – che potremmo definire esperienziale e dialogico – vale più di molte lezioni teoriche: perché forma non solo la mente, ma anche la coscienza civica.
Nel contesto attuale, in cui le identità vengono spesso ridotte a bandiere da contrapporre, e in cui il discorso pubblico tende a semplificare e polarizzare, ogni occasione di incontro reale è preziosa. Non si tratta di celebrare una generica “tolleranza”, ma di costruire insieme una cittadinanza plurale, fondata sul rispetto, sull’ascolto e sulla responsabilità reciproca.
In definitiva, questa visita non è soltanto un episodio positivo: è un modello. Un modello di scuola aperta al mondo, di educazione che non teme la complessità, di società che sceglie il dialogo invece della diffidenza. È in esperienze come queste che si coltiva la possibilità di una convivenza realmente democratica: non come ideale astratto, ma come pratica quotidiana.
Educare alla differenza non è una gentile concessione. È una necessità democratica. È un investimento sul futuro delle nostre comunità, che vogliamo più coese, giuste e capaci di restare umane.
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