IL GIOCO DEL 15

Non siamo troppi, siamo solo mal distribuiti. 

Viviamo in un paradosso storico senza precedenti: l’umanità dispone oggi di risorse sufficienti a garantire dignità e benessere a tutti, eppure persevera in una logica distopica di scarsità. Questa contraddizione non è un incidente di percorso, ma il sintomo di un sistema economico che trasforma l’abbondanza in privilegio e la cooperazione in competizione. Al centro di questa distorsione si erge il mito della sovrappopolazione, narrazione tossica che maschera l’ingiustizia strutturale del capitalismo globale. Quando l’1% della popolazione possiede più ricchezza del 50% più povero, parlare di “troppe persone” equivale a un sofisma politico. Il problema non risiede nei numeri, ma nell’architettura di un sistema che concentra risorse mentre produce scarsità artificiale. Basti pensare al paradosso ecologico: i Paesi a più alto tasso di natalità, come quelli dell’Africa subsahariana, contribuiscono in modo marginale alle emissioni di CO2, mentre le nazioni ricche, con popolazioni stabili o in declino, consumano risorse in modo esponenziale. Un cittadino statunitense emette 160 volte più CO2 di un abitante del Ciad, eppure il dibattito pubblico continua a colpevolizzare le culle del Sud del mondo anziché gli stili di vita insostenibili del Nord globale.  

Questa distorsione non è neutra: serve a preservare lo status quo, trasformando le vittime della disuguaglianza in capri espiatori. Il neoliberismo ha compiuto un’operazione ideologica geniale, ha convertito problemi sistemici in colpe private. Di fronte alla crisi climatica, ci viene detto di sostituire le lampadine; di fronte alla povertà, di donare in beneficenza; di fronte all’ingiustizia, di affidarci al rituale elettorale. Questa “micro-politica della responsabilità” frammenta il malcontento, paralizzando l’azione collettiva. Come può un individuo sentirsi responsabile del riscaldamento globale quando 100 multinazionali producono il 71% delle emissioni mondiali? La retorica dell’impronta ecologica individuale è un tranello, trasforma il cittadino in consumatore colpevole, assolvendo chi detiene il vero potere decisionale.  

Del resto, la Terra potrebbe sostenere 10 miliardi di persone se le risorse fossero gestite razionalmente. Il problema non è la capacità del pianeta, ma la logica predatoria del mercato. Nell’agricoltura, produciamo cibo per 10 miliardi di esseri umani, ma un terzo viene sprecato mentre 800 milioni soffrono la fame. Nel settore abitativo, le case vuote superano i senzatetto in tutte le principali città occidentali. Questi squilibri rivelano una verità scomoda: non esiste scarsità oggettiva, ma scarsità politicamente orchestrata. Il cibo manca solo a chi non può pagarlo; le case sono inaccessibili perché trasformate in asset finanziari. L’economia della scarsità è, in realtà, un’economia della selezione sociale.  

Le migrazioni moderne smascherano la violenza delle frontiere, linee immaginarie che determinano accesso a diritti fondamentali come acqua, cure mediche o istruzione. Mentre il cosmopolitismo celebra l’universalità astratta dei diritti umani, ignora le strutture materiali che li rendono inaccessibili. Una vera cittadinanza planetaria richiede non solo l’abolizione dei confini, ma la ridistribuzione radicale delle risorse. Le materie prime estratte nel Sud globale, il lavoro sottopagato, i danni ambientali esternalizzati devono essere riconosciuti come debito storico da saldare.  

Ma nessun cambiamento significativo può emergere dall’interno del sistema attuale. Le riforme graduali falliscono perché le strutture di potere, dal capitalismo finanziario alle istituzioni internazionali, sono progettate per autoperpetuarsi. La storia insegna che le grandi trasformazioni, dall’abolizione della schiavitù alla creazione dello stato sociale, sono sempre nate da conflitti, non da concessioni élitarie. Questo non implica necessariamente violenza, ma richiede un conflitto organizzato [scioperi, disobbedienza civile, creazione di alternative economiche parallele]. È una lotta per riappropriarsi della politica, trasformandola da amministrazione dell’esistente a strumento di immaginazione radicale.  

La sfida più urgente è rompere l’incantesimo del “non c’è alternativa”. Il capitalismo ha colonizzato il nostro immaginario, presentandosi come fine della storia. Eppure, ogni conquista sociale, dalle 8 ore lavorative al suffragio universale, era considerata utopica prima di diventare realtà. Una società fondata sulla cooperazione e sulla dignità universale non è un sogno naif. È una possibilità concreta, già anticipata da esperienze come i beni comuni o l’economia solidale. Riconoscere che “un altro mondo è possibile” non è un atto di fede, ma un imperativo strategico. La politica autentica non si limita a gestire ciò che esiste, ma trasforma l’impossibile in inevitabile. Come scriveva Eduardo Galeano, “l’utopia è all’orizzonte: serve a camminare”.

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