IN PRINCIPIO ERA L'1
L’uomo è sempre stato affascinato dal sapere chi sia stato il primo essere. Perché, nel profondo, ha sempre saputo di essere il secondo. È il senso del venire dopo, dell’essere effetto e non causa, che lo ha spinto a cercare un’origine, a scrutare il cielo, a costruire miti, filosofie, teorie scientifiche. In questa ricerca, più che risposte, ha trovato visioni: intuizioni che attraversano epoche e culture, come quella che ci ha lasciato Pitagora, il maestro che ascoltava l’armonia del cosmo nei numeri.
Non ha dimostrato l’esistenza di Dio come un matematico moderno dimostrerebbe un teorema, ma ha osato affermare che alla radice del molteplice vi è l’Uno. Non un’unità aritmetica, non semplicemente l’1, ma un principio indivisibile, eterno, generativo. È celebre il racconto in cui i suoi discepoli gli domandano da dove venga l’1, se tutto il resto deriva da somme di 1. La sua risposta è limpida come un assioma: «L’Uno non nasce, l’Uno è.» In questa affermazione non c’è solo filosofia, ma una vera e propria visione cosmologica, una percezione spirituale dell’origine.
L’Uno pitagorico non è un concetto chiuso o sterile: è una fonte che trabocca in mille forme, un ritmo invisibile che fa vibrare l’universo come una corda tesa. E questa visione non è rimasta confinata ai margini della Grecia antica. Ha attraversato secoli e religioni, mutando linguaggio ma non essenza. Nell’ebraismo, l’unità di Dio è proclamata come verità assoluta: “Ascolta, Israele: il Signore è uno”. Nel cristianesimo, l’unità fra il Padre e il Figlio riecheggia lo stesso mistero. Nell’islam, Dio è Al-Ahad, l’Unico che non genera né è generato, mentre nell’induismo il Brahman è l’uno senza secondo, la realtà ultima che precede ogni dualità. Persino nel buddhismo, che rifugge l’idea di un creatore personale, si intravede un’armonia unificante: la rete interdipendente dei fenomeni suggerisce che tutto è parte di un unico tessuto. E perfino nella letteratura fantastica, come nel Silmarillion di Tolkien, si incontra l’Uno: Eru Ilúvatar, l’Unico che canta il mondo in esistenza.
La scienza, con le sue formule e i suoi esperimenti, sembra muoversi in direzione simile, anche se con strumenti diversi. Il Big Bang è un’ipotesi scientifica, non una narrazione sacra, eppure parla di un’origine unica da cui tutto si espande. La fisica quantistica, con l’entanglement e le fluttuazioni del vuoto, svela un mondo in cui le distanze e le distinzioni si sfaldano, come se ogni cosa fosse legata da un principio nascosto. E il sogno della “teoria del tutto” è forse il desiderio più moderno di ritrovare quell’Uno che Pitagora intravedeva nei numeri.
La matematica rimane il ponte tra queste visioni. Non è solo uno strumento tecnico, ma un linguaggio che sembra rivelare una struttura nascosta nell’universo. È la grammatica della creazione, il codice che lega il visibile all’invisibile. Per Pitagora, i numeri erano più che quantità: erano archetipi, idee vive, capaci di spiegare il cosmo come un’armonia intonata da un principio primo.
Forse, allora, l’Uno non va cercato come oggetto, ma ascoltato come presenza. Non è una cosa che si trova, ma un’intuizione che si rivela nel silenzio, nella bellezza, nella coerenza profonda del reale. Non c’è bisogno di dimostrarlo, perché lo si riconosce come si riconosce una melodia: non si spiega, ma risuona. E proprio questo potrebbe essere il dono di Pitagora: non una formula che chiude il discorso su Dio, ma un invito a vedere nell’universo un ordine che parla, una tensione che unisce, un’unità che precede e fonda ogni differenza.
L’uomo è il secondo, sì. Ma nel suo desiderio di sapere chi sia il primo, forse si avvicina al cuore stesso dell’Uno. E in quella tensione, in quello slancio verso l’origine, trova non una risposta definitiva, ma un’eco che non smette mai di chiamare.
Commenti
Posta un commento