LESA SANTITÀ
In un tempo in cui ogni figura pubblica è esposta al tribunale dell’opinione rapida e del sarcasmo compulsivo, anche il Papa non è risparmiato dal giudizio sommario. Etichettarlo come ho letto in un commento su X “un pagliaccio vestito a festa” non è soltanto un atto irriverente: è un’affermazione che tradisce ignoranza storica e una povertà di pensiero preoccupante. Significa ridurre secoli di elaborazione teologica, tensioni morali e riflessioni sul senso dell’umano a una caricatura da palcoscenico. Ma la Chiesa — e in particolare il papato — non è un teatro dell’assurdo. È, piaccia o meno, un’istituzione che per duemila anni ha rappresentato un freno, una voce, e spesso una coscienza in grado di interrogare il potere, l’individuo e la società.
La tradizione non è mai una zavorra, ma una lente attraverso cui comprendiamo il presente. La Chiesa, in questo senso, non è un relitto del passato, ma un organismo vivo che, pur radicato nella tradizione, interagisce con il mondo, dialoga con la modernità, si interroga e si trasforma. È questo che molti dimenticano: dietro le formule liturgiche e le vesti rituali non c’è solo conservazione, ma anche tensione dialettica tra il tempo e l’eterno, tra l’umano e il trascendente.
Criticare il Papa è lecito. La storia è piena di figure papali discutibili — e anche di contestazioni teologiche interne. Ma ridicolizzarlo senza comprenderne la funzione è un atto sterile. Il Papa è, simbolicamente, ciò che lo Stato moderno non osa più essere: una voce che parla di limiti, di virtù, di colpa e redenzione. In una società che ha fatto dell’autonomia dell’individuo il dogma assoluto, la voce del Papa — e più in generale delle religioni — suona stonata. Ma forse proprio per questo è necessaria. Come scriveva Carl Gustav Jung, “senza religione, l’uomo moderno corre il rischio di restare preda della propria ombra”. La religione, intesa nella sua dimensione simbolica e morale, è uno dei pochi strumenti che ricordano all’uomo la finitezza della propria condizione.
La Chiesa, però, non è un monolite. I papi possono cambiare prospettiva, e lo fanno. A volte si adeguano ai tempi, altre li anticipano. Giovanni XXIII, convocando il Concilio Vaticano II, ruppe con secoli di immobilismo e aprì una stagione di riforma culturale, liturgica e sociale che ancora oggi fa discutere. Quel gesto non fu solo pastorale, ma filosofico: fu il riconoscimento che la verità non è statica, ma va testimoniata nel mondo, e per il mondo, senza snaturarne l’essenza. Similmente, Papa Francesco stava spingendo la Chiesa verso un’ecologia integrale, verso un’etica della cura e una Chiesa “in uscita”, vicino agli ultimi, ai migranti, ai poveri. Si può dissentire, ma non si può negare che ciò rifletta una visione etica del mondo.
La filosofia politica di Thomas Hobbes ci ha mostrato cosa accade quando non esistono argini morali: l’uomo torna a essere lupo per l’altro uomo. Se il Leviatano moderno — lo Stato — ha progressivamente rinunciato al ruolo educativo, allora il vuoto lasciato è colmato solo in parte da leggi e algoritmi. Il ruolo della religione, oggi, non è dettare norme, ma offrire senso. E il senso è ciò di cui la società sembra avere più fame, anche quando lo rifiuta a parole.
In conclusione, ridicolizzare il Papa non è solo una forma di maleducazione: è il segno di una società che ha perso il gusto della profondità. Criticare, discutere, dissentire: tutto giusto. Ma pensare che l’autorità spirituale sia solo una maschera è una semplificazione che rivela più dello spettatore che dell’attore. In tempi "liquidi", ogni argine sembra un fastidio. Ma forse è proprio l’argine ciò che ci salva dal naufragio.
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