TU SAI CHI ERA KUNDERA?
Scrivere fa male [ma non abbastanza da smettere]
O della nobile arte di non farcela, ma con stile
La storia della letteratura è costellata di ombre. Non si tratta solo delle ombre che abitano le pagine, quelle che animano i personaggi e i loro tormenti. Si tratta, più radicalmente, delle ombre che hanno abitato gli autori stessi. È impossibile ignorare la lunga, dolorosa sequenza di scrittori e scrittrici che hanno scelto di concludere volontariamente la propria esistenza. Cesare Pavese, Virginia Woolf, Paul Celan, Emilio Salgari, Primo Levi, Guido Morselli, David Foster Wallace, Sylvia Plath, Amelia Rosselli... l’elenco è tragicamente lungo, eterogeneo e inquietante.
Ci si interroga spesso sul rapporto tra creatività e sofferenza. La domanda non è nuova, né originale, ma resta aperta e urgente: esiste una connessione profonda tra la capacità di esprimere la complessità del mondo attraverso la scrittura e una sensibilità talmente acuta da risultare, talvolta, insopportabile?
Il suicidio, in questi casi, non può essere liquidato come semplice gesto individuale, come incidente psichico isolato. Esso sembra piuttosto configurarsi come l’epilogo di un percorso interiore segnato da una tensione estrema tra il bisogno di comunicare e l’impossibilità di essere ascoltati nel profondo. Gli autori sopra citati – in momenti, epoche e contesti diversi – hanno fatto della parola scritta un’arma, un rifugio, talvolta una condanna.
Cesare Pavese scriveva: «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi». Era la morte, per lui, un volto conosciuto, intimo. La incontrò in una stanza d’albergo, come se volesse ribadire la solitudine essenziale del gesto. Virginia Woolf camminò verso il fiume con le tasche piene di sassi: il peso del mondo, il peso delle parole non dette, forse, o dette troppo. Salgari, schiacciato dai debiti e dall’industria editoriale, inscena un suicidio quasi letterario, trasformando un coltello da cucina in una katana giapponese: un ultimo atto di immaginazione, di fedeltà ai propri personaggi.
Anche Primo Levi, sopravvissuto all’inferno di Auschwitz, sembra soccombere non al passato, ma all’insostenibilità del presente, come se il peso della memoria fosse diventato inconciliabile con la continuità della vita. Artaud, con una scarpa in mano, ci lascia un’immagine assurda, teatrale e struggente: l’oggetto più semplice del quotidiano diventa emblema della disintegrazione dell’identità.
L’impressione è che molti di questi autori non siano stati distrutti dalla vita, ma dall’impossibilità di renderla sostenibile attraverso la scrittura. Quando la parola non salva più, quando non trasforma, quando non contiene, allora diventa silenzio. E a volte, il silenzio prende la forma del gesto finale.
Ma c’è di più. La letteratura, con la sua vocazione universale, ha il potere di trasformare la disperazione individuale in riconoscimento collettivo. Un lettore, ovunque nel tempo e nello spazio, può leggere Sylvia Plath o Amelia Rosselli e sentire, nel profondo, che qualcuno ha vissuto e compreso il suo stesso dolore. In questo senso, la scrittura sopravvive al suicidio del suo autore, e ne rovescia paradossalmente il senso: da gesto di ritiro assoluto dal mondo, a segnale eterno di presenza.
Scrivere, allora, è camminare su un crinale. Chi scrive, spesso, si muove tra abissi: quello dell’autenticità, della verità, della solitudine radicale. È un mestiere che espone, scava, consuma. Ma è anche uno dei pochi atti umani che riescono, talvolta, a creare ponti nel vuoto. Per questo non possiamo smettere di leggere, di insegnare, di condividere le opere di questi autori, anche quando le loro vite si sono concluse tragicamente.
La loro parola non è solo testimonianza di dolore, ma anche di una strenua ricerca di senso. È un messaggio che ci arriva da lontano, spesso in lingue diverse, ma che dice sempre la stessa, disarmante verità: anch’io mi sento così.
E in quel momento, chi legge non è più solo.
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