FINE VITA MAI
Il teatrino parlamentare sul disegno di legge relativo al fine vita che si sta consumando in Senato rappresenta probabilmente uno dei più raffinati esempi di ipocrisia istituzionale del nostro tempo, e non stupisce affatto che la maggioranza di governo abbia deciso di rinviare più volte la discussione con la scusa di "approfondimenti necessari" e "audizioni indispensabili" che porteranno la conclusione dell'iter almeno al 2025. Perché mai affrettarsi quando si tratta di decidere se le persone abbiano il diritto di sottrarsi a sofferenze atroci? Siamo di fronte a una classe politica che si pavoneggia parlando di "questioni che toccano i fondamenti della vita umana" mentre costruisce una normativa che è l'antitesi stessa di qualsiasi principio di dignità o autodeterminazione.
Il punto di partenza di questo circo è la sentenza 242 del 2019 della Corte Costituzionale, che ha stabilito i requisiti per la non punibilità dell'aiuto al suicidio medicalmente assistito, e la Corte ha pure avuto la cortesia di ribadire recentemente l'urgenza di dare concreta attuazione a quanto stabilito. Ma evidentemente per i nostri legislatori "urgenza" è una parola che appartiene a un vocabolario sconosciuto, almeno quando si tratta di alleviare le sofferenze altrui. Così abbiamo trasformato un obbligo costituzionale in un eterno dibattito sui "principi fondamentali dell'ordinamento", come se l'ordinamento non prevedesse già il rispetto della dignità umana.
Quando i soloni della politica affrontano il tema del fine vita dal punto di vista etico, tirano fuori immancabilmente la solita litania sulla "dignità umana", e ovviamente ognuno ha la sua personalissima interpretazione. Da una parte ci sono quelli che identificano la dignità con l'autonomia dell'individuo di decidere delle proprie scelte di vita, una visione che secondo loro affonda le radici nella tradizione kantiana ma che in realtà si ferma alla prima pagina del manuale di filosofia. Dall'altra parte si ergono i paladini della "dignità come valore intrinseco e inviolabile della vita umana", quelli che citano Aristotele e San Tommaso per giustificare il fatto che una persona debba morire tra atroci sofferenze perché così ha deciso la Provvidenza o la Natura o chissà quale entità superiore che evidentemente si diverte a guardare le persone soffrire.
Naturalmente, non poteva mancare il richiamo al principio medico del "primum non nocere", che questi geni hanno sempre interpretato come "tieni in vita la gente a tutti i costi anche se stanno urlando dal dolore". Poi l'evoluzione della medicina palliativa ha costretto anche i più ottusi a distinguere tra "non nuocere" e "torturare per bene", e così è nato il concetto di "accanimento terapeutico", che hanno accettato a denti stretti perché ormai era troppo evidente che tenere attaccate alle macchine persone in stato vegetativo non aveva molto a che fare con la cura. Ma il passaggio dal "lasciar morire" al "far morire" rimane una linea rossa invalicabile, perché evidentemente c'è una differenza morale abissale tra guardare qualcuno morire lentamente e permettergli di farlo con dignità.
Dal punto di vista filosofico, la questione diventa ancora più tragicomica. I liberali tirano in ballo la "autodeterminazione" per dire che ognuno dovrebbe essere libero di decidere per sé, principio talmente rivoluzionario che ci sono voluti secoli per formularlo. Gli utilitaristi fanno i loro calcoli sulla "massimizzazione del benessere" come se la sofferenza fosse una variabile matematica da ottimizzare, e si stupiscono quando qualcuno fa notare che forse le "implicazioni sociali" di queste scelte sono leggermente più complesse di un'equazione.
I personalisti cattolici, ovviamente, tirano fuori la "dimensione relazionale della persona umana" per spiegare che nessuno può decidere autonomamente del proprio destino perché siamo tutti "esseri intrinsecamente sociali". Tradotto: tu non puoi decidere di morire perché turberesti la sensibilità di chi ti sta intorno, che evidentemente preferisce vederti soffrire piuttosto che affrontare il lutto. La tua agonia, insomma, è un fatto sociale, e la società ha diritto di prolungarla quanto le pare.
Non potevano mancare le femministe dell'etica della cura, che hanno scoperto che siamo tutti "vulnerabili" e quindi dovremmo concentrarci sulla "interdipendenza" anziché sull'autonomia. Bellissima teoria, peccato che quando sei attaccato a un tubo e soffri come un cane, la tua "interdipendenza" si riduce al fatto che dipendi da altri per tutto, incluso il continuare a soffrire se gli altri così decidono.
Il coinvolgimento del medico in tutto questo pasticcio solleva poi questioni "fondamentali" sull'identità della professione medica, perché la tradizione ippocratica avrebbe sempre identificato il medico come uno che cura, non come uno che uccide. Come se aiutare qualcuno a morire con dignità fosse equivalente a sterminare la popolazione. La medicina palliativa viene proposta come alternativa, il che è fantastico per chi risponde bene alle cure palliative, ma per quelli che continuano a soffrire come dannati, evidentemente la soluzione è continuare a soffrire con qualche antidolorifico in più.
Ma il vero capolavoro di cinismo arriva quando si parla delle "possibili pressioni sociali ed economiche" che potrebbero influenzare le decisioni di fine vita. Certo, c'è il rischio che persone anziane o disabili si sentano di peso, ma la soluzione qual è? Tenerle in vita contro la loro volontà così si sentono ancora più di peso? E poi c'è il tocco di classe: il disegno di legge riconosce la vita fin dal concepimento, una formulazione che casualmente potrebbe aprire una breccia contro il diritto all'aborto. Perché evidentemente questi legislatori hanno pensato: "Già che ci siamo a regolare il fine vita, perché non rimettere in discussione anche l'inizio vita?" La coerenza vuole che se riconosci la sacralità della vita nascente, poi devi costringere quella stessa vita a finire tra le torture, altrimenti dove va a finire la logica?
E come se tutto questo non bastasse, ecco il meccanismo più sadico: se un Comitato governativo [un Comitato governativo!] respinge la tua richiesta di morire con dignità, puoi riprovarci tra quattro anni. Quattro anni! Come dire: "Caro cittadino, se non ti va bene soffrire oggi, riprova tra una legislatura e mezzo, magari nel frattempo cambi idea o muori da solo". Quattro anni sono un'eternità per chi ha già stabilito che la propria condizione è insopportabile, ma evidentemente per questi burocrati della sofferenza sono un tempo ragionevole per "riflettere". E naturalmente è il governo a decidere se la tua volontà è legittima o meno, perché l'autodeterminazione individuale è un concetto troppo complicato per essere lasciato agli individui.
Il bello è che tutto questo viene giustificato con la necessità di "proteggere i soggetti vulnerabili". Proteggere da cosa? Dal rischio di smettere di soffrire? Dall'eventualità di morire con dignità invece che come bestie? La tutela dei vulnerabili, in questa logica perversa, significa costringerli a rimanere vulnerabili a vita, o meglio, a morte.
L'analisi delle esperienze internazionali viene tirata fuori quando fa comodo, naturalmente selezionando solo gli aspetti che confermano i pregiudizi di partenza. L'Olanda, il Belgio, la Svizzera hanno regolamentato la materia? Ah, ma loro sono paesi diversi, con culture diverse, non si può trasferire nulla. Il fatto che abbiano dimostrato che si può regolamentare senza aprire i famosi "portoni dell'inferno" viene elegantemente ignorato.
La conclusione di questo capolavoro di ipocrisia è che il dibattito parlamentare offre "l'opportunità di un confronto maturo" per "costruire una cultura del fine vita" che sappia accompagnare le persone "con competenza medica, sensibilità umana e saggezza etica". Tradotto: continuiamo a parlare per qualche altro anno mentre la gente vive male, così almeno dimostriamo di essere persone sensibili e sagge. La "cultura del fine vita" che stiamo costruendo è quella di una società che preferisce costringere i propri membri a morire tra atroci sofferenze piuttosto che ammettere che a volte la cosa più umana da fare è permettere a qualcuno di andarsene con dignità.
Il disegno di legge sul fine vita non rappresenta un progresso civile, ma un monumento all'ipocrisia di una classe politica che si nasconde dietro nobili principi per giustificare la propria incapacità di affrontare la realtà della sofferenza umana. È la dimostrazione che quando si tratta di questioni davvero importanti, preferiamo costruire labirinti burocratici e filosofici piuttosto che soluzioni umane e dignitose.
Commenti
Posta un commento