MACHO MACHO MAN


Il cameratismo è uno dei grandi feticci della mascolinità moderna: un vincolo affettivo fra uomini che viene esaltato, celebrato, idealizzato, a patto che resti rigidamente non detto, rigorosamente non esplicitato, protetto da una cortina di ironia, silenzi, gergo da caserma e contatto fisico “accettabile”. Si può piangere insieme dopo una partita, ci si può toccare, abbracciare, addirittura dormire vicini in tenda, ma guai a nominare qualcosa che somigli troppo all'amore, alla tenerezza, o peggio ancora al desiderio. Il cameratismo è l’armadio dentro cui si conserva il corpo maschile che ama un altro corpo maschile, purché non si sappia, purché non si dica, purché si mantenga la forma rassicurante della "fratellanza". Ma fratelli di cosa, poi? Di un’idea di virilità costruita sulla rimozione, sulla paura dell’ambiguità, sull’infantile bisogno di approvazione da parte degli altri maschi? Il vero tabù, in fondo, non è tanto l’omosessualità, quanto l’idea che un uomo possa essere vulnerabile, toccato, dipendente, emotivo. Che possa desiderare e, peggio ancora, ammetterlo.

È qui che interviene il machismo, e non un machismo qualunque, ma quello più deteriore e urlato della destra contemporanea. Un machismo paranoico, caricaturale, costruito come una risposta difensiva a tutto ciò che è sfumato, complesso, vivo. Il machismo come antidoto al dubbio, come diga contro la possibilità che l’identità maschile non sia una fortezza ma un organismo poroso, permeabile, mutevole. Generali come Vannacci pontificano sulla “natura”, sui ruoli, sulla gerarchia, fingendo di parlare di ordine ma in realtà tentando di anestetizzare il caos che li abita. Uomini per cui tutto ciò che esce dal binario-etero-fascio è un disordine da raddrizzare a suon di “sani valori”, come se la sessualità, l’identità, il sentimento potessero essere messi in riga con l’addestramento e il decoro.

Poi c’è il “cielodurismo”, quella sottospecie di maschilismo padano che da anni marca il territorio della Lega: il culto della ruspa, del maiale arrostito, della camicia sbottonata sull’ombelico, dei presepi esibiti come atti di guerra culturale. È una forma di pornografia della virilità povera, dove ogni gesto deve essere performativo, esagerato, gridato, altrimenti rischia di rivelare la propria inconsistenza. La "virilità" deve essere dura perché sotto c’è un’identità fragile, impaurita, che ha bisogno di gonfiare i bicipiti e tirare su muri per non affrontare il fatto che l’“uomo vero”, così come lo raccontano, semplicemente non esiste. È un’allucinazione collettiva, un incubo identitario travestito da orgoglio nazionale.

E poi ci sono i cantori di questo machismo pop, come Giuseppe Cruciani. Non ha la mimetica né il rosario in mano, ma fa la stessa operazione: costruisce ogni giorno un uomo medio arrabbiato, esasperato, convinto che ogni diritto concesso agli altri sia una minaccia a lui. Cruciani è il profeta del politicamente scorretto come feticcio, il paladino del dire “ciò che non si può dire” — quando in realtà lo dice da anni, indisturbato, con il benestare di un sistema mediatico che ama le provocazioni tanto quanto odia le soluzioni. Il suo maschio è reazionario ma con la scusa dell’ironia, misogino ma con la risata pronta, omofobo ma con la foglia di fico del “dibattito”. È la versione finto-ribelle del machismo istituzionale: non urla "Dio, patria e famiglia", ma ci costruisce sopra ore di radio, ogni giorno, ogni sera, ogni insulto confezionato come una provocazione "colta". Ma dietro le bestemmie e le parolacce ben dosate, resta lo stesso identico bisogno di difendere un’identità maschile che si sta sgretolando e che non trova altro modo per esistere se non attaccare ciò che la mette in crisi: la libertà, l’ambiguità, la dolcezza.

In tutto questo, il cameratismo continua a rappresentare il rifugio affettivo in cui l’uomo può ancora desiderare un altro uomo senza dirlo, e il machismo resta il muro di cinta di questa prigione. È un sistema di controllo che si traveste da forza, ma che ha paura perfino della Bibbia quando non conferma i suoi slogan. Perché se davvero volessero parlare di virilità secondo le Scritture, dovrebbero spiegare che il più grande legame di amore tra uomini mai narrato nella Bibbia non fu quello tra fratelli di sangue, ma tra Davide e Gionata. “Il tuo amore per me è stato più meraviglioso dell’amore delle donne” — dice Davide nel Secondo Libro di Samuele. Una frase che, oggi, detta in un bar, farebbe impennare i livelli di testosterone difensivo. Eppure è lì, scritta, canonica, sacra. Ma quella parte non la leggono mai, o la leggono con imbarazzo, come si fa con i parenti scomodi. Perché perfino Dio, nella loro versione, deve restare maschio-alfa, armato, padano e possibilmente eterosessuale.

Così il maschio italiano resta imprigionato nel suo corpo blindato, tra il culto del duro e l’orrore per la dolcezza, mentre i suoi desideri più profondi si agitano sotto la pelle come i vermi in un frutto che si vuole sembrare ancora intero. Ma intero non è. È spaccato in due: tra quello che prova e quello che dice di provare. Tra ciò che desidera e ciò che finge di desiderare. Tra ciò che è e ciò che gli è stato ordinato di essere. E forse non c’è virilità più rivoluzionaria, oggi, di quella che osa dire: sì, ho paura, sì, ho bisogno, sì, ti voglio bene — anche se sei un uomo come me.

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