L’invidia e il comunismo... ovvero come un sentimento umano si è fatto sistema...
Il buon vecchio Karl Marx, mentre se ne stava nella Londra nebbiosa dell’Ottocento a scribacchiare furiosamente nei caffè [e probabilmente a lamentarsi del clima inglese], di sicuro non si svegliava ogni mattina pensando: “Oggi scriverò un bel manifesto basato sull’invidia!”
Più probabile che, guardando gli operai spaccarsi la schiena per sedici ore in cambio di una misera pagnotta, pensasse: “Forse, ma proprio forse, c’è qualcosa che non funziona in questo sistema.”
Certo, Marx era umano, e quindi un pizzico d’invidia in fondo al cuore ce l’aveva pure lui. Chi non si è mai detto almeno una volta: “Ma perché quello ha tutto e io niente?”
Però il punto di partenza non era la gelosia sociale, bensì osservazioni molto concrete: condizioni di vita terribili, ingiustizie macroscopiche, un capitalismo che, all’epoca, faceva sembrare simpatiche pure le sanguisughe.
Il dettaglio più spassoso? Molti tra i primi teorici socialisti erano ricchi sfondati!
Marx, figlio di avvocato; Engels, industriale ereditario; una vera sfilata di benestanti che predicavano uguaglianza dal comfort delle loro poltrone in velluto rosso.
Un po’ come se oggi Elon Musk pubblicasse un Manifesto contro i miliardari [cosa che, essendo Elon Musk, potrebbe pure succedere...].
Dunque, più che pura invidia, c’era forse anche quel classico senso di colpa del ricco annoiato che cerca un hobby più interessante del polo o della filatelia.
E qui arriva il plot twist degno di M. Night Shyamalan:
nella pratica, i regimi comunisti hanno davvero elevato l’invidia a forma d’arte performativa!
Stalin, Mao, Pol Pot & Co. ci hanno costruito interi spettacoli: se avevi due paia di scarpe, o peggio ancora due scarpe alla moda, eri automaticamente sospettato di essere un nemico del popolo.
È stato il trionfo dell’invidia istituzionalizzata: se tutti devono essere uguali, nessuno può emergere. E se qualcuno emerge... dev’essere per forza un imbroglione, o peggio ancora, un agente del capitalismo internazionale [o magari entrambe le cose, visto che il multitasking era molto apprezzato nei regimi comunisti].
Detto questo, ridurre il comunismo a una mera espressione di invidia sarebbe come spiegare l’intera storia dell’umanità con la fame di carboidrati — tecnicamente possibile, ma un po’ troppo semplificato.
C’erano critiche serissime al capitalismo selvaggio [che all’epoca ti faceva rimpiangere persino i topi di fogna], c’erano aspirazioni democratiche autentiche, e anche l’ingenuità colossale di pensare che si potesse pianificare un’economia complessa come si organizza una cena tra amici.
Spoiler: l’economia è più come tentare di organizzare una cena per otto miliardi di persone con gusti alimentari diversi, allergie varie, intolleranze e budget ridotti, il tutto senza un gruppo di WhatsApp.
La parte teologica, poi, è uno spasso: per molti cristiani, il comunismo era nientemeno che opera del Demonio — un Diavolo con un CV di tutto rispetto, esperto in tentazioni, specializzato in utopie autodistruttive.
Il comunismo prometteva un paradiso terrestre in concorrenza sleale con quello celeste, con lo Stato nei panni di Dio e il Partito a far da clero. Dogmi inclusi, eretici scomunicati [e spediti non all’inferno, ma nei gulag — che, francamente, non erano granché meglio].
Allo stesso tempo, non possiamo dimenticare che molti cristiani sinceri furono attratti dagli ideali socialisti, vedendoli compatibili con i valori evangelici di giustizia e solidarietà. Da lì nacque, ad esempio, la "teologia della liberazione".
Il tema più delicato resta però la libertà.
Il comunismo storico ha spesso sacrificato le libertà individuali in nome dell’uguaglianza... senza nemmeno raggiungere questa benedetta uguaglianza!
Alla fine, anziché eliminare le élite, le hanno solo sostituite: invece di magnati industriali, abbiamo avuto burocrati con potere politico.
Come dire: cambi il padrone, ma il guinzaglio resta.
Tirando le somme, sì: l’invidia ha giocato un ruolo nelle versioni più populiste e demagogiche del comunismo, ma spiegare tutto solo con l’invidia è riduttivo.
Servono una buona dose di contesto storico, una spruzzata di errori teorici e un bel pizzico di psicologia delle masse per capire come mai milioni di persone abbiano aderito a queste idee nel Novecento.
E il Capitalismo... è esente dall'invidia?
Assolutamente, è semplicemente l’altra faccia della medaglia!
Nel capitalismo, l’invidia è più sofisticata, più subdola.
Non si chiama più invidia, no: si chiama “meritocrazia” o “sogno americano”.
Il messaggio è chiaro: se non hai la villa con piscina, è solo perché non ti sei impegnato abbastanza!
Come dire: “se non sei ricco, è colpa tua”. Elegante, vero?
Qui l’invidia si traveste da legittima aspirazione: “Se lui ce l’ha fatta, perché io no?”
Peccato che il sistema parta truccato: chi nasce avvantaggiato ha molte più possibilità, mentre chi parte svantaggiato spesso resta indietro, per quanto si dia da fare.
Il capitalismo ti vende l’illusione che il tuo valore coincida col tuo conto in banca.
Ogni rapporto umano diventa una transazione, ogni sogno un’opportunità di business.
E l’invidia, ben nascosta, diventa il vero motore dell’economia: compri per dimostrare, accumuli per esistere, consumi per sentirti vivo.
In fin dei conti, entrambi i sistemi raccontano una favola seducente:
uno promette che saremo tutti uguali [salvo poi creare una nuova casta],
l’altro che saremo tutti liberi [se possiamo permettercelo].
Alla fine della fiera, che sia con la falce e martello o con il dollaro scintillante, l’invidia resta sempre lì, silenziosa e instancabile, a sussurrarci all’orecchio, mefistofelico:
"Guarda un po’ quello... perché lui sì e tu no?"
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