MONOPOLI
"Il multimiliardario che spende fa arricchire un territorio. Attrarre i miliardari e farli spendere per arricchire tutti", dice Flavio Briatore, e in effetti questa frase racchiude una filosofia economica che sentiamo ripetere spesso. Ma proviamo a immaginare per un attimo un grande gioco di Monopoli, non quello da tavolo che conosciamo, ma un Monopoli reale che si gioca su territori, città e quartieri. In questo gioco i multimiliardari partono con un vantaggio enorme, un capitale così vasto che possono comprare praticamente tutto quello che trovano sulla plancia: case, hotel, terreni, attività commerciali, tutto finisce nelle loro mani.
Ogni volta che spendono, sembra davvero che facciano girare l'economia, che portino ricchezza e sviluppo, ma se guardiamo più da vicino ci accorgiamo che è un gioco a somma zero per la maggior parte degli altri giocatori, quelli meno abbienti che non hanno le risorse per competere. Mentre i ricchi comprano e investono, accumulano proprietà e vedono aumentare il valore dei loro beni, arricchendosi sempre di più, i meno abbienti si trovano a dover pagare affitti sempre più alti, prezzi di beni e servizi che lievitano, tasse che gravano su di loro in modo sproporzionato. Non riuscendo più a permettersi di restare in quelle zone ormai monopolizzate, sono costretti ad abbandonare il territorio, a cercare altrove un posto dove vivere, lavorare, magari sognare un futuro migliore.
Questo processo non è solo teoria, lo vediamo accadere nelle grandi metropoli di tutto il mondo. Quando i grandi capitali si concentrano in un'area, non si limitano ad acquistare singole proprietà ma ridisegnano interi quartieri secondo logiche di massimizzazione del profitto. Le attività commerciali storiche, spesso a conduzione familiare, vengono sostituite da catene internazionali che possono permettersi affitti più elevati. I piccoli negozi di quartiere, le botteghe artigiane, i locali che erano punti di aggregazione sociale, scompaiono per far posto a concept store, boutique di lusso, ristoranti gourmet. Non è solo una trasformazione estetica o commerciale, è proprio antropologica: cambia la natura delle relazioni sociali in quel territorio.
Dove prima esistevano reti di solidarietà di vicinato, economie informali, spazi di socialità spontanea, ora si creano ambienti più asettici, standardizzati, rivolti a una clientela con maggiore capacità di spesa. Anche l'offerta di servizi cambia: le scuole pubbliche di quartiere si svuotano delle famiglie originarie che si sono trasferite altrove, mentre aumenta la domanda di scuole private internazionali. I servizi sanitari di base vengono sostituiti da cliniche private specializzate, i trasporti pubblici non servono più le esigenze della popolazione locale ma vengono ottimizzati per collegare i quartieri premium tra loro e con i centri di business.
L'economia che si sviluppa in questi territori crea una struttura occupazionale bipolare: da un lato lavori altamente qualificati e ben remunerati nel settore finanziario, tecnologico, consulenziale, che attraggono professionisti da tutto il mondo; dall'altro una grande massa di lavori di servizio a bassa qualificazione e basso salario come camerieri, addetti alle pulizie, guardiani, autisti, baby-sitter. È un paradosso: i lavoratori che rendono possibile lo stile di vita dei ricchi non possono permettersi di vivere negli stessi quartieri dove lavorano, sono costretti a lunghi spostamenti quotidiani da periferie sempre più lontane, con costi di trasporto che erodono ulteriormente i loro già modesti salari.
La teoria di Briatore riflette una narrazione molto diffusa, l'idea che attrarre i ricchi sia automaticamente vantaggioso per tutti perché spendono localmente creando domanda, questa domanda genera occupazione, le tasse pagate dai ricchi finanziano servizi pubblici, gli investimenti aumentano il valore degli immobili arricchendo anche i proprietari locali. Ma nella realtà questa teoria presenta diversi punti critici. I ricchi spesso portano con sé le proprie reti di fornitori, professionisti, servizi: un miliardario che si trasferisce in una località non compra necessariamente dal fornaio del posto, più probabilmente fa arrivare il pane dalla sua panetteria di fiducia di Milano o Parigi. I suoi avvocati, consulenti, medici, architetti sono spesso quelli che già utilizzava, non professionisti locali.
Molto del denaro speso dai ricchi in un territorio finisce rapidamente altrove: i profitti dei luxury hotel vanno alle multinazionali che li gestiscono, i guadagni dei negozi di alta moda tornano alle case madri internazionali, anche le tasse vengono spesso ottimizzate attraverso strutture fiscali complesse che ne riducono l'impatto locale. E poi c'è il costo opportunità: le risorse pubbliche dedicate ad attrarre e soddisfare i ricchi sono sottratte ad altri possibili utilizzi. Un territorio che investe massicciamente in porti turistici per mega-yacht, aeroporti privati, campi da golf, residenze di lusso, ha meno risorse da dedicare a scuole, ospedali, trasporti pubblici, edilizia popolare.
Questo Monopoli reale produce esclusione a diversi livelli. C'è l'esclusione economica: i prezzi di case, servizi, anche beni di prima necessità, si allineano alla capacità di spesa dei nuovi arrivati facoltosi. Un caffè al bar può passare da uno a cinque euro, la spesa al supermercato raddoppiare, l'affitto di un bilocale triplicare. Chi viveva in quel territorio con redditi medi o bassi si trova improvvisamente fuori mercato. C'è l'esclusione culturale: i nuovi codici sociali, estetici, comportamentali che si affermano creano barriere invisibili ma concrete. Il modo di vestire, di parlare, di muoversi, di socializzare cambia, e chi non si adegua si sente a disagio, non più a casa propria. C'è l'esclusione politica: le decisioni sul territorio vengono sempre più influenzate dalle esigenze dei nuovi abitanti facoltosi, che hanno maggiori risorse per far sentire la propria voce, possono assumere i migliori avvocati, lobbisti, consulenti, possono minacciare di andarsene se le politiche non li soddisfano. La popolazione originaria, più frammentata e con meno risorse, perde progressivamente potere decisionale sul proprio territorio.
Il territorio stesso diventa una commodity, un bene di lusso, si trasforma da spazio di vita condivisa a prodotto di consumo esclusivo. Ogni spazio urbano ha tradizionalmente un duplice valore: il valore di scambio, quanto costa comprarlo o affittarlo, e il valore d'uso, quanto è utile per viverci. Quando i ricchi si concentrano in un territorio, il valore di scambio esplode ma il valore d'uso per la popolazione originaria crolla. Una piazza che prima era luogo di incontro e gioco per i bambini del quartiere diventa un salotto all'aperto per aperitivi costosi, un lungomare che era passeggiata quotidiana per gli anziani locali diventa passerella per turisti facoltosi.
I territori che attraggono i ricchi subiscono spesso una standardizzazione estetica: ovunque gli stessi marchi del lusso, le stesse architetture firmate, gli stessi concept di ristorazione e intrattenimento. Si perde l'identità locale, la stratificazione storica, la complessità culturale che rendevano unico quel luogo. Il territorio diventa un brand, una location, un set cinematografico più che un luogo di vita autentica. Così, mentre i ricchi si spostano da una casella all'altra del loro Monopoli, comprando e costruendo, i meno abbienti perdono terreno fino a sparire quasi dal gioco stesso.
Ma esistono alternative a questo modello. Alcuni territori stanno sperimentando l'economia di prossimità: invece di puntare sui grandi capitali esterni, rafforzano l'economia locale sostenendo le piccole imprese del territorio, promuovendo i prodotti locali, creando reti di economia solidale, sviluppando monete complementari che mantengono la ricchezza nel territorio. Ci sono esperienze di Community Land Trust, cooperative di abitanti, proprietà comunale degli immobili, che sottraggono almeno parte del territorio alle logiche speculative del mercato, garantendo che rimanga accessibile alla popolazione locale. Processi di pianificazione partecipata, bilanci partecipativi, assemblee di quartiere permettono alla popolazione di mantenere il controllo democratico sui cambiamenti del proprio territorio, evitando che le decisioni siano prese solo in base agli interessi di chi ha più capitale.
L'obiettivo non è impedire qualsiasi forma di investimento o sviluppo economico, ma democratizzare il controllo di questi processi. Immaginare un Monopoli dove non vince chi ha più capitale iniziale, ma dove tutti i giocatori hanno strumenti per influenzare le regole del gioco, per ridistribuire periodicamente la ricchezza accumulata, per garantire che nessuno venga espulso dalla plancia. Un territorio veramente ricco non è quello che attrae i miliardari, ma quello che include tutti i suoi abitanti nei processi di creazione e distribuzione della ricchezza, un luogo dove il valore non è più solo quello economico ma quello umano, culturale, ambientale. Dove il vero vincitore non è chi possiede tutto, ma una comunità che cresce insieme, senza lasciare nessuno ai margini del gioco della vita sociale ed economica.
In fondo, questo Monopoli reale che abbiamo descritto rappresenta un modello di sviluppo che, pur promettendo prosperità per tutti, produce invece concentrazione di ricchezza ed esclusione sociale. La spesa dei ricchi non si traduce in un arricchimento collettivo, ma in un circolo vizioso che alimenta disuguaglianze e tensioni, trasformando il territorio in un campo di gioco sempre più inaccessibile per chi non ha grandi capitali. Riconoscere questi meccanismi è il primo passo per immaginare e costruire alternative più giuste e inclusive, dove lo sviluppo economico sia davvero al servizio di tutti gli abitanti di un territorio, non solo dei più ricchi.
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