ANNA E MARCO

Personaggi:

ANNA – Bioeticista, 40 anni. Razionale, empatica, intensa. Ha lo sguardo di chi ha visto molto dolore.

MARCOMedico palliativista, 50 anni. Fermo ma sensibile, con un forte senso etico e un passato segnato da perdite.

Ambientazione:
Una sala spoglia di un ospedale, notte fonda. Le luci sono basse. Fuori si sentono a tratti il ronzio delle macchine, passi ovattati di infermieri, una voce flebile che chiama da una stanza lontana.
Al centro, un tavolo metallico, due sedie. Una teiera fumante. Cartelle cliniche sparse. È un momento di pausa rubato alla notte.

[Luce soffusa. Marco è seduto, stanco, sfoglia lentamente una cartella clinica. Anna entra in silenzio, poggia una mano sulla sedia di fronte. Silenzio.]

ANNA
[cauta, con un tono quasi di confessione]
Marco... c'è una domanda che mi tormenta da mesi.
Quando ti opponi all'eutanasia… lo fai perché questa posizione ti dà una sorta di conforto morale? Una sensazione di superiorità etica?
O credi davvero che una persona, consapevole, lucida, che soffre ogni giorno e dipende da una macchina per ogni respiro… debba essere costretta a vivere, anche se non lo vuole più?

[Marco alza lentamente lo sguardo. C'è una stanchezza antica nei suoi occhi.]

MARCO
[serio, ma non sulla difensiva]
Anna, la tua domanda è provocatoria. Ma legittima. E ti rispetto troppo per ignorarla.
No, non è questione di sentirsi superiori. È che... io credo — profondamente — che la vita abbia un valore in sé.
Un valore che persiste anche nella sofferenza. Anche nella dipendenza. Anche nella fragilità.

ANNA
[avvicinandosi, quasi tagliando l'aria]
Allora rispondimi.
Se una paziente ti dicesse: "Io non sono più io. Voglio smettere di soffrire. Aiutami a morire."
Tu cosa fai? Le dici di aspettare un miracolo? Di trovare "nuovi significati" nel dolore?

MARCO
[guardando altrove]
Le parlerei. Le direi che ci sono terapie, cure palliative, che non è sola.
Che possiamo ancora fare qualcosa. Che…

ANNA
[interrompendolo, ferma]
No. Non vuole "fare qualcosa". Vuole finire. Vuole decidere.
Tu la costringeresti a restare in una condizione che lei stessa definisce inumana?
E per cosa, Marco? Per il tuo giuramento? Per la tua coscienza?

[Pausa. Marco si alza, cammina lentamente verso la finestra. Guarda il buio oltre il vetro.]

MARCO
[voce più bassa]
Perché non possiamo mai essere sicuri che quella decisione sia davvero libera.
La depressione può mascherarsi da lucidità.
La paura, la solitudine, il peso invisibile di sentirsi un fardello…
Come fai a distinguere la volontà autentica da quella piegata?

ANNA
[lo raggiunge, non con rabbia ma con urgenza]
E allora neghiamo la scelta a tutti? Per timore di sbagliare con qualcuno?
Questa è una forma perversa di protezione, Marco. È paternalismo mascherato da etica.
Non siamo padroni delle vite altrui. Nemmeno se indossiamo il camice.

MARCO
[girandosi lentamente]
Ma noi siamo medici, Anna. Il nostro compito è non nuocere.
Come posso dare la morte a una persona e allo stesso tempo dire di averla aiutata?

ANNA
[appoggiando una mano sul tavolo, con passione trattenuta]
E obbligarla a sopravvivere contro la sua volontà... non è forse nuocere?
Non è forse peggio trasformare la medicina in uno strumento di coercizione della vita?

[Silenzio. Marco guarda il pavimento, pensieroso.]

MARCO
E se ci sbagliamo, Anna? Se quella persona avrebbe cambiato idea, se solo avessimo aspettato un giorno in più?
L'eutanasia è un salto irreversibile. È una porta che, una volta aperta, non si richiude.

ANNA
[sottovoce, quasi una preghiera]
Anche la sofferenza forzata lo è.
Ogni giorno che passa, per alcuni, è una tortura. È una condanna inflitta nel nome della salvezza.
Ma salvare cosa, Marco? Un corpo? Un principio astratto?

MARCO
[alzando la voce, con tormento]
La dignità. La sacralità della vita. L'idea che ogni essere umano — anche il più fragile — ha un valore inviolabile.
Se iniziamo a decidere chi può morire e quando... non stiamo forse dicendo che alcune vite valgono meno?

ANNA
[sussurrando]
No.
Stiamo dicendo che la libertà conta.
Che la dignità non è solo restare vivi. È poter scegliere quando dire "basta".
Che il valore di una vita non può essere misurato da fuori, da noi, ma solo da chi la vive.

[Marco torna a sedersi, lentamente. Si sfila gli occhiali. Si passa una mano sul viso.]

MARCO
[come se parlasse a se stesso]
Forse... ho paura.
Che accettando l'eutanasia, la società cominci a considerare davvero alcune vite come "sacrificabili".
Che un anziano povero, un disabile solo, senta la pressione a scegliere la morte.
Non per volontà, ma per senso di colpa.

ANNA
[sedendosi di fronte a lui, pacata]
È una paura giusta.
E dobbiamo combatterla.
Ma non vietando la libertà.
Dobbiamo costruire un sistema che protegga i deboli... senza imprigionare i forti.
Dove l'eutanasia non è un obbligo sociale, ma un diritto individuale. Rigoroso. Raro. Ma reale.

[Silenzio profondo. Il ronzio delle macchine si fa appena più forte. Una luce si spegne in fondo al corridoio.]

MARCO
[sussurrando]
E come facciamo a sapere se è davvero libera, quella scelta?

ANNA
[con dolcezza, ma fermezza]
Ascoltandoli.
Non i protocolli. Non le statistiche. Non le paure.
Loro. I pazienti. Le loro storie, i loro silenzi, i loro occhi.
È lì che si trova la verità. Non nei codici. Nei cuori.

[Marco la guarda. Lunghissimo silenzio. Si sente solo un respiro profondo.]

MARCO
Forse... forse hai ragione.
Forse dobbiamo partire dalla sofferenza. Non dai dogmi.

ANNA
[sorridendo, malinconica]
Sofferenza... e ascolto.
È lì che si gioca tutto.
Non essere pro o contro la morte... ma essere pro dignità.
Perché la dignità, Marco, è la nostra ultima forma di libertà.

[La luce si abbassa lentamente. I due restano seduti, in silenzio, nella penombra. Il rumore delle macchine diventa un battito. Una soglia. Un respiro.]
[Dopo un lungo silenzio, Marco si versa del tè dalla teiera. Le sue mani tremano leggermente.]

MARCO
[fissando la tazza]
Sai, Anna... c'è qualcosa che non ti ho mai detto.
Qualcosa che forse spiega perché sono così... radicato in questa posizione.

ANNA
[aspettando, senza pressione]
Dimmi.

MARCO
[voce rotta]
Mia madre. Cinque anni fa. Cancro al pancreas.
Negli ultimi mesi, mi supplicava. "Marco, aiutami. Non posso più."
E io... io non l'ho fatto. Le ho dato morfina, l'ho sedata, ma non l'ho liberata.

[Pausa. Anna non dice nulla, ma i suoi occhi si riempiono di comprensione.]

MARCO [cont.]
È morta tre settimane dopo. Tre settimane di agonia.
E sai cosa mi ha detto il giorno prima di morire?
"Grazie per avermi dato tempo. Ho capito cosa dovevo capire."

ANNA
[molto delicatamente]
Cosa aveva capito?

MARCO
[con la voce che si spezza]
Che il dolore... era stato il suo dono.
Non un dono da Dio, non in senso mistico. Ma un dono... a me. Ai miei figli. Alla famiglia.
In quei mesi terribili, lei ci ha insegnato ad amarci in modo diverso.
Ci ha mostrato cosa significa essere fragili insieme.
Ha trasformato la nostra paura in compassione.

[Anna ascolta, con gli occhi lucidi.]

MARCO [cont.]
E io penso... penso che se l'avessi aiutata a morire subito, avremmo perso tutto questo.
Avremmo perso la possibilità di attraversare insieme quel buio.
Di scoprire che l'amore può esistere anche nel dolore.
Anzi, forse soprattutto nel dolore.

ANNA
[dopo una lunga pausa]
Marco... capisco. Capisco davvero.
Ma dimmi una cosa. Tua madre ha detto quelle parole perché le credeva davvero?
O perché voleva darti pace? Perché voleva che il suo dolore... servisse a qualcosa?

[Marco si blocca. Non aveva mai considerato questa possibilità.]

ANNA [cont.]
[con tenerezza infinita]
Forse il vero dono di tua madre non è stato sopportare il dolore.
Forse è stato... amarti abbastanza da trasformare la sua sofferenza in una lezione.
Per te. Per voi.
Ma questo non significa che ogni dolore sia un dono.
Non significa che ogni persona debba patire per insegnare qualcosa agli altri.

MARCO
[confuso, vulnerabile]
Ma come faccio a distinguere? Come faccio a capire quando il dolore ha un senso e quando è solo... crudeltà?

ANNA
[alzandosi, avvicinandosi]
Non puoi deciderlo tu, Marco.
Non possiamo decidere noi quale dolore ha senso e quale no.
Possiamo solo... essere presenti. Ascoltare. E lasciare che siano loro a dircelo.

[Marco la guarda, con gli occhi pieni di lacrime.]

MARCO
[sussurrando]
E se mi sbaglio? Se lascio morire qualcuno che avrebbe potuto... dare ancora?

ANNA
[prendendo la sua mano]
E se ti sbagli tenendo in vita qualcuno che ha già dato tutto?
Marco, l'errore fa parte dell'essere umani.
Ma costringere qualcuno a vivere contro la sua volontà... non è proteggere la sacralità della vita.
È profanarla.

[Silenzio. Il ronzio delle macchine sembra più lontano.]

MARCO
[guardando nel vuoto]
Forse... forse devo imparare a fidarmi di più.
Di loro. Dei pazienti.
Non di ciò che penso sia meglio per loro.
Ma di ciò che sanno essere giusto per sé stessi.

ANNA
[sorridendo attraverso le lacrime]
Il dolore può essere un dono, Marco. Hai ragione.
Ma solo se chi lo vive sceglie di farlo diventare tale.
Non possiamo imporlo. Non possiamo rubarlo.
Possiamo solo... stargli accanto. Qualunque cosa scelgano.

[Marco annuisce lentamente. Si asciuga gli occhi.]

MARCO
[con voce nuova, più leggera]
Sai cosa mi spaventa di più?
Che se accetto l'eutanasia... perderò la mia fede.
La mia fede che la vita abbia sempre un senso.
Anche quando non lo vediamo.

ANNA
[con dolcezza]
Forse non perderai la fede.
Forse la trasformerai.
Forse inizierai a credere che il senso più profondo della vita...
è la libertà di scegliere quando dirle addio.

[Marco la guarda. Per la prima volta, sembra in pace.]

MARCO
[quasi sorridendo]
Una fede più coraggiosa.
Che si fida dell’amore delle persone.
Anche quando quell’amore chiede di lasciar andare.

ANNA
[annuendo]
Anche quando chiede di lasciar andare.

[Il silenzio che segue è diverso. Non più pesante. Ma pieno di comprensione.]

MARCO
[alzandosi lentamente]
Penso che... dovrò rivedere molte cose.
Parlare con i miei pazienti in modo diverso.
Ascoltare domande che ho sempre evitato.

ANNA
[alzandosi anche lei]
Non è facile. Ma forse è l’unica strada per essere davvero medici.
Non padroni della vita.
Ma servitori della dignità.

[Marco raccoglie le cartelle cliniche. Anna spegne la teiera.]

MARCO
[prima di uscire]
Anna... grazie.
Per avermi fatto la domanda giusta.
Quella che non volevo sentire.

Pensavo che cambiare idea fosse una resa... Ma forse è solo un modo diverso di avere fede. 

ANNA
[sorridendo]
Grazie a te.
Per avermi mostrato che si può cambiare idea senza perdere il cuore.

[Escono insieme. La luce si spegne. Il ronzio delle macchine continua, ma ora sembra meno opprimente. Più umano.]

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