CAVILLI MARINI
Il processo che si aprirà a gennaio contro i sei militari per il naufragio di Cutro ci pone davanti a interrogativi che vanno ben oltre la cronaca giudiziaria, toccando il cuore stesso di come una società civile dovrebbe rapportarsi con chi bussa alle sue porte in cerca di salvezza. Non si tratta solo di stabilire colpe individuali o di verificare se determinati protocolli sono stati rispettati, ma di interrogarci su cosa significhi davvero la responsabilità quando si ha il potere di salvare vite umane e si sceglie, consciamente o inconsciamente, di non farlo. La tragedia del "Summer Love" è emblematica di quel fenomeno che chiamo "la banalità del male", dove la catastrofe non nasce da intenzioni malvagie ma dall'incapacità di pensare, dal conformismo burocratico, dalla frammentazione delle responsabilità che permette a ciascuno di dire "io ho fatto solo il mio dovere" mentre 94 persone, di cui 35 bambini, morivano a pochi chilometri dalle nostre coste. Il fatto che l'accusa ruoti attorno alla "mancanza di scambio di informazioni" tra Guardia di finanza e Guardia costiera rivela qualcosa di profondamente inquietante sulla natura del nostro sistema: come è possibile che in un'epoca di comunicazioni istantanee, di tecnologie sofisticate, di protocolli dettagliati, il fallimento derivi da qualcosa di così elementare come il non parlarsi tra uffici? Questo silenzio non è tecnico, è politico ed etico, perché rivela una concezione del migrante come problema da gestire piuttosto che come essere umano da salvare. La filosofia politica ci insegna che ogni società si definisce non tanto per come tratta i suoi cittadini privilegiati, ma per come si rapporta con i più vulnerabili, con gli stranieri, con chi non ha voce: il naufragio di Cutro è lo specchio di un'Europa che ha trasformato il Mediterraneo in un cimitero liquido, dove la distinzione tra "soccorso" e "respingimento" è diventata sempre più labile e dove le operazioni di controllo delle frontiere hanno finito per prevalere sull'imperativo morale del salvataggio. L'esistenza di "regole di ingaggio" che prevedono prima il monitoraggio occulto e poi quello visivo, con il soccorso della Guardia costiera solo in un secondo momento, testimonia di una logica securitaria che antepone il controllo del territorio al valore della vita umana, trasformando il mare da via di comunicazione e di soccorso in barriera militarizzata. Qui emerge tutta la contraddizione etica e giuridica del nostro tempo: da una parte il diritto internazionale che impone il dovere di soccorso in mare, dall'altra politiche migratorie che criminalizzano de facto questo stesso soccorso, creando una zona grigia dove operatori in buona fede possono trovarsi paralizzati dall'incertezza su cosa sia lecito fare. Il processo di Crotone dovrà stabilire se i sei militari siano colpevoli di negligenza, ma la vera domanda che dovremmo porci è se non siamo tutti complici di un sistema che ha reso strutturale l'indifferenza verso chi muore cercando di raggiungere le nostre sponde: ogni volta che accettiamo l'idea che l'immigrazione sia un'emergenza da contenere piuttosto che un fenomeno da governare umanamente, ogni volta che riduciamo il dibattito a slogan sulla sicurezza ignorando che dietro ogni numero ci sono storie, famiglie, speranze spezzate, contribuiamo a costruire quel muro di indifferenza che ha reso possibile Cutro. La responsabilità non è solo di chi quella notte non ha comunicato le informazioni giuste o non ha coordinato i soccorsi: è di una classe politica che ha alimentato paure e costruito consenso sulla pelle dei migranti, di media che hanno trasformato tragedie umane in statistiche, di cittadini che hanno preferito voltarsi dall'altra parte pur di non mettere in discussione la propria tranquillità. Il vero processo, quello che dovrebbe interessarci di più, non è quello che si aprirà a gennaio a Crotone ma quello che dovremmo aprire alle nostre coscienze, per capire come abbiamo potuto accettare che nel 2023, a pochi chilometri dalle coste europee, 94 persone potessero morire mentre chi aveva il dovere e i mezzi per salvarle rimaneva impigliato in cavilli burocratici e silenzi istituzionali.
Commenti
Posta un commento