DIAZ

Genova, luglio 2001: un’estate italiana rovente, non solo per il clima ma per lo spettacolo indecente messo in scena dalle élite del mondo e da uno Stato che, sotto la maschera democratica, rivelava nervi scoperti e inclinazioni autoritarie degne di altri tempi. Il G8 non fu solo un summit blindato da tonnellate di cemento e poliziotti armati fino ai denti, ma il palcoscenico su cui è andato in scena uno scontro epocale tra due visioni del mondo: da una parte i padroni dell’universo, chiusi a decidere il destino del pianeta in salotti ovattati, e dall’altra una marea umana che chiedeva, con rabbia e intelligenza, che il futuro fosse qualcosa di più equo di una conferenza stampa finale. Altro che violenza e scontri degenerati: Genova fu il boato di una tensione covata per anni, la crepa nella narrazione della globalizzazione felice. Il sistema, per difendersi, fece quello che ogni sistema sa fare meglio quando si sente minacciato: manganellare, reprimere, torturare. Perché la democrazia, quella vera, finisce sempre lì dove iniziano le zone rosse. E così mentre i “grandi” discutevano di come salvare i mercati – cioè loro stessi – decine di migliaia di persone osavano mettere in discussione un modello economico che arricchiva pochi e spolpava tutto il resto, pianeta incluso. Il movimento no-global, che già nella definizione giornalistica veniva ridotto a caricatura, portava in piazza una critica strutturata e lucida contro il neoliberismo rampante, denunciando la frottola della crescita infinita su un pianeta evidentemente finito. E invece che risposta ottenne? Lacrimogeni, idranti, una camionetta su cui viene sparato un colpo che uccide un ragazzo, torture in una scuola pubblica trasformata in campo di concentramento improvvisato e un sistema mediatico complice che, con buona pace della verità, si sbrigò a bollare tutto come il caos degli antagonisti. Ma la vera domanda, oggi, è: di fronte a quello che è successo, chi sono i veri antagonisti? Chi contesta un sistema ingiusto o chi lo difende a suon di calci e fascette? La lezione di Genova è che il potere non sa dialogare, sa solo reprimere. E quando si trova davanti a una soggettività nuova, non la ascolta: la cancella. Ma quella soggettività, fatta di studenti, precari, preti di strada, femministe, disoccupati, migranti, ecologisti e chi più ne ha più ne metta, era tutto fuorché folkloristica: era la prova vivente che un’altra politica è possibile, ma fa troppa paura. Paura perché non si lascia inquadrare, paura perché non cerca leader né padrini, paura perché osa pensare il mondo fuori dalle gabbie dell’economia e dentro quelle, più umane, della giustizia sociale. Ma se Genova è stata una pagina nera della democrazia italiana, è doveroso dire che tra chi manifestava c’era anche chi ha contribuito a peggiorare la situazione: i black bloc, con il loro teppismo da vetrina spaccata e il loro feticismo della violenza, hanno dato al potere l’alibi perfetto per scatenare la repressione. Travestiti da rivoluzionari, hanno agito come provocatori consapevoli o inconsapevoli, trasformando una protesta legittima e potente in una scusa per lo Stato di blindarsi ancora di più e per l’opinione pubblica di distogliere lo sguardo dalle vere questioni. Nessuna causa, per quanto giusta, si rafforza incendiando un’auto o sfasciando un negozio a caso, anzi: così si affossa, si delegittima, si regala munizioni al nemico. E in quel caos costruito e cavalcato, la violenza è diventata sistema, e chi avrebbe dovuto proteggere i cittadini ha mostrato invece il volto più torvo del potere. La verità è che Genova fu l’anticamera della paranoia che sarebbe esplosa pochi mesi dopo con l’11 settembre: da lì in poi, chiunque osi mettere in dubbio l’ordine economico dominante viene trattato come un problema di ordine pubblico. Eppure, vent’anni dopo, quelle idee che volevano silenziare a suon di sfollagente sono diventate titoli di apertura: clima, disuguaglianze, crisi della democrazia rappresentativa. Solo che adesso a parlarne sono le stesse élite che a Genova alzavano muri e bastoni. La globalizzazione si è rivelata la truffa che molti dicevano fosse, ma chi allora lo gridava finì col volto spaccato o in cella. E no, non c’è nulla di neutrale nel modo in cui si decide il futuro. Il G8 lo ha mostrato chiaramente: il potere, quando è contestato nel profondo, smette i guanti bianchi e mostra i pugni. Ma se pensavano di averla chiusa lì, si sbagliavano di grosso: Genova non è stata una fine, ma un inizio. E ogni volta che oggi qualcuno alza la voce contro lo status quo, quella voce porta dentro l’eco di quelle giornate.

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