DISUNION JACK
Il caso di Courtney Wright, la dodicenne inglese che è stata invitata a cambiare vestito durante il "Culture Celebration Day" della sua scuola per aver indossato un abito decorato con la Union Jack, merita una riflessione più attenta di quanto possa sembrare a prima vista. Certo, bisogna considerare che forse la scuola non l'ha punita per il simbolo in sé, ma semplicemente perché l'abito non era appropriato per una bambina di dodici anni, e che quindi l'invito a indossare altri vestiti potrebbe essere stato motivato da ragioni di decoro piuttosto che da censura culturale. Tuttavia, anche accettando questa versione più blanda dei fatti, resta il problema di fondo: perché proprio in un giorno dedicato alla celebrazione delle culture diverse, una bambina che voleva esprimere la propria identità britannica si è sentita respinta? E soprattutto, perché questo episodio ha scatenato tanto dibattito se davvero si trattava solo di una questione di abbigliamento appropriato?
La verità è che, anche se la scuola ha solo "invitato" Courtney a cambiarsi senza punirla formalmente, il messaggio implicito è stato chiaro: la tua cultura, espressa in quel modo, non è benvenuta qui. È questo il paradosso che emerge dal caso: in un evento pensato per celebrare la diversità, la cultura del Paese ospitante viene percepita come problematica, mentre altre culture vengono accolte e valorizzate. Si tratta di quello che potremmo chiamare "multiculturalismo selettivo", un sistema che promuove solo le culture considerate "altre", relegando quella nazionale a un ruolo secondario o addirittura sospetto. Il risultato è profondamente contraddittorio: nel tentativo di essere inclusivi verso ogni identità culturale, si finisce per escludere proprio quella di riferimento del contesto in cui si opera.
Courtney aveva preparato un discorso sulla cultura britannica, voleva condividere ciò che per lei significava sentirsi inglese, ma invece si è ritrovata isolata e invitata a cambiare aspetto. Questo ci costringe a chiederci: quale cultura è davvero ammessa, oggi, nei riti pubblici della diversità? La risposta sembra essere: tutte tranne quella "maggioritaria", come se essa costituisse di per sé una minaccia all'inclusione. Ma se ogni cultura ha valore e dignità, lo stesso dovrebbe valere anche per quella britannica, che non può essere demonizzata solo perché "dominante" nel suo stesso territorio.
L'episodio ha una forte valenza simbolica e pedagogica perché la scuola, oltre a trasmettere saperi, è il luogo dove si costruisce l'identità collettiva. Anche se l'intervento è stato presentato come una semplice richiesta di cambio d'abito, per una bambina di dodici anni il messaggio è devastante: "il modo in cui esprimi la tua identità non è accettabile". È un segnale che rischia di far crescere i giovani confusi e disorientati, incapaci di riconoscere il valore della propria eredità culturale. Paradossalmente, un'iniziativa pensata per promuovere l'integrazione finisce per alimentare frustrazione e senso di esclusione.
Il nodo filosofico di fondo riguarda il rapporto tra universalismo e particolarismo, tra il diritto di celebrare la propria identità e la paura che essa venga percepita come oppressiva. L'Occidente, in particolare, sembra vivere una profonda crisi identitaria: nella sua ansia di non apparire egemonico, ha finito per autocensurarsi. Ma la diversità autentica non si costruisce annullando sé stessi, bensì riconoscendo pari dignità a tutte le tradizioni.
L'episodio si inserisce in un contesto segnato dalla correttezza politica esasperata, dove il timore di offendere porta a forme di censura, anche se mascherate da semplici "inviti" a comportarsi diversamente. La marcia indietro della scuola, dopo la protesta pubblica, è significativa: l'istituzione ha riconosciuto l'eccesso e ha tentato di correggere il tiro. Ma resta il fatto che ha agito inizialmente seguendo una logica ideologica più che educativa, riflettendo una tendenza diffusa nelle società occidentali: sacrificare il senso comune sull'altare dell'iper-sensibilità culturale.
Dal punto di vista culturale, la vicenda mostra quanto sia fragile il nostro rapporto con i simboli. La Union Jack, scelta da Courtney, non è solo una bandiera: è anche una forma di espressione estetica e culturale, una vera icona pop legata a una storia nazionale che ha contribuito in modo decisivo alla cultura mondiale. Considerarla un simbolo "problematico" o anche solo inappropriato per una bambina rivela una perdita di prospettiva storica, un impoverimento del pensiero critico. Una vera educazione multiculturale dovrebbe promuovere il dialogo tra culture, non la soppressione di una per valorizzare le altre.
La responsabilità degli educatori è enorme. Una scuola che, anche solo implicitamente, scoraggia l'espressione di identità culturale tradisce la propria missione: non forma cittadini consapevoli, ma giovani insicuri, privi di radici. Educare alla diversità non significa negare la cultura maggioritaria, ma insegnare il rispetto reciproco. Ogni studente – inglese, pakistano, caraibico, polacco – dovrebbe sentirsi autorizzato a esprimere ciò che è, senza timore di essere invitato a cambiare. La vera uguaglianza passa da qui.
E qui emerge una domanda provocatoria: come avrebbe dovuto vestirsi Courtney per esprimere la sua "inglesità" in modo accettabile? Con un costume d'epoca? Una tazza di tè in mano? Il problema è che la cultura britannica contemporanea non ha codici tradizionali altrettanto visibili come quelli di altre culture. Per una ragazza di oggi, la Union Jack è una delle poche espressioni simboliche immediate dell'identità nazionale. Negarla, o anche solo scoraggiarla, significa svuotarla di significato.
C'è poi un'ulteriore ipocrisia da denunciare: cosa sarebbe accaduto se, invece di Courtney, fosse stata una ragazza di origine pakistana a essere invitata a cambiare un abito con un rimando alla propria cultura perché "non appropriato per una bambina"? L'indignazione sarebbe stata ancora più forte – e giustamente - o piuttosto non l'avrebbe scatenato?
Ma allora, perché non vale lo stesso principio per una britannica che mostra orgoglio per la propria cultura? Se la libertà culturale non è universale, ma selettiva, diventa solo un'altra forma di discriminazione mascherata da inclusione.
Infine, la vicenda di Courtney solleva una riflessione più ampia sulle derive opposte del conservatorismo e del progressismo. Il conservatorismo estremo tende a escludere le culture minoritarie in nome della supremazia nazionale; il progressismo radicale, al contrario, finisce per negare legittimità alla cultura maggioritaria, pur di non apparire discriminatorio. In entrambi i casi, si perde la possibilità di un vero pluralismo. La sfida è trovare una terza via: una società dove tutte le culture possano essere celebrate e rispettate, senza gerarchie, senza paure, senza censure, nemmeno quelle soft mascherati da semplici "inviti". Dove l'orgoglio per le proprie radici sia una base per il dialogo, non un motivo di esclusione, e dove una bambina possa sentirsi libera di esprimere la propria identità senza dover temere di essere invitata a nasconderla.
Commenti
Posta un commento