PUBBLICITÀ INGANNEVOLE
La recente dichiarazione su X del senatore Lucio Malan, secondo cui uno studio dell’Università di Stanford mostrerebbe che, a fronte degli oltre 14 milioni di morti che si sarebbero potuti evitare con la vaccinazione dai 12 anni in su secondo i sostenitori del vaccino, "solo" [sic!] 2,5 milioni si sarebbero effettivamente salvati, riapre un dibattito complesso e delicato. Piccola chiosa, 2,5 milioni di persone rappresentano la popolazione di: Valle d'Aosta, Molise, Basilicata, Umbria e Marche.
Malan, quasi a voler parlare di pratiche di "pubblicità ingannevole, ne trae la conclusione che vaccinare gli under-60 sia stato inutile, rivedendo di conseguenza i presupposti dell'adozione del Green Pass. Al di là dell’interpretazione specifica di quello studio – che meriterebbe un esame tecnico accurato per verificarne metodologia, contesto e limiti – questa affermazione ci offre l’occasione per riflettere su una delle decisioni più controverse dell’era pandemica: l’estensione della vaccinazione e l’introduzione del Green Pass. È fondamentale ricordare che quelle scelte non furono arbitrarie né ideologiche, ma frutto di una mediazione politica basata sulle migliori evidenze scientifiche disponibili in un contesto di emergenza senza precedenti. Quando si parla di decisioni politiche, non si intende un’opinione personale imposta dall’alto, ma il risultato di un bilanciamento tra dati scientifici, responsabilità pubblica e sostenibilità sociale. All’epoca, la comunità scientifica – pur non essendo un soggetto unitario né giuridicamente definito – indicava in modo chiaro che i vaccini erano efficaci nel ridurre malattia grave e mortalità, soprattutto tra gli anziani, ma anche tra i più giovani offrivano una certa protezione individuale e contribuivano a limitare la trasmissione del virus. È vero che già allora era noto come la protezione calasse con il tempo e che anche i vaccinati potessero trasmettere il virus, ma questo non rendeva irrazionale la scelta di vaccinare anche chi non era nelle fasce più a rischio. La logica era chiara: viviamo in una società interconnessa, non in compartimenti stagni. I giovani convivono con i nonni, le generazioni si incontrano nei luoghi pubblici, nei trasporti, nei ristoranti, nelle scuole. In questo contesto, immunizzare anche le fasce meno vulnerabili significava proteggere indirettamente quelle più fragili, ed era un atto di responsabilità collettiva. Il Green Pass, in questo quadro, rappresentava una soluzione di compromesso per conciliare esigenze apparentemente inconciliabili: da un lato la necessità di riaprire il paese dopo mesi di lockdown devastanti per l’economia e la salute mentale, dall’altro quella di mantenere un livello accettabile di sicurezza sanitaria. Le alternative erano poche e tutte problematiche: continuare con chiusure generalizzate, che avrebbero portato a un collasso sociale; imporre tamponi a tutti, con costi altissimi e forti disuguaglianze di accesso; oppure introdurre uno strumento come il Green Pass, che premiava chi si vaccinava senza escludere completamente chi faceva scelte diverse, ma imponeva un minimo di cautela. Questa non era una forma di autoritarismo, ma una concezione della libertà come partecipazione attiva alla vita collettiva, dove le scelte individuali producono conseguenze per l’intera comunità. Il conflitto tra autonomia personale e responsabilità sociale – uno dei nodi centrali della filosofia politica moderna – trovava qui una manifestazione concreta. Certo, oggi possiamo e dobbiamo valutare con lucidità i risultati di quelle scelte, alla luce dei dati raccolti con il tempo. Ma sarebbe disonesto negare che furono decisioni prese con serietà, nell’incertezza, cercando un equilibrio tra diritti, salute pubblica e coesione sociale. Non fu un percorso perfetto, ma fu una risposta razionale a un evento straordinario.
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