TRIBUNA POLITICA, CI MANCHI!
Questa deriva rappresenta una rottura profonda con la tradizione democratica italiana che, almeno fino agli anni Ottanta, aveva nei programmi come Tribuna Politica uno dei suoi momenti più alti. Era uno spazio in cui i leader si presentavano direttamente agli elettori, senza intermediari, senza “frame” preconfezionati, misurandosi con il linguaggio dell’argomentazione. Il pubblico, considerato adulto e consapevole, era chiamato a seguire, capire, scegliere. Era, in fondo, un’esercitazione civica collettiva.
La progressiva scomparsa di questo modello ha lasciato spazio a una comunicazione politica sempre più delegata a figure di secondo piano, spesso più interessate a curare la propria visibilità mediatica che a rappresentare realmente una visione politica. Il risultato è che l’elettore medio si orienta tra impressioni confuse, slogan intermittenti, personalismi inconsistenti. La politica smette di essere confronto tra idee e diventa sfida tra narcisismi.
Questa trasformazione non nasce dal nulla. Ha radici nella crisi dei grandi partiti ideologici degli anni Novanta, che ha lasciato il campo a formazioni più fluide, meno strutturate, dominate da leadership personalizzate. Ma è stata anche accompagnata da una mutazione del medium televisivo, che da spazio di approfondimento è diventato arena spettacolare. I talk show hanno sostituito i dibattiti, il conflitto teatrale ha preso il posto del confronto dialettico. L’informazione ha cominciato a modellarsi sulle logiche dell’intrattenimento.
In parallelo, l’esplosione dei social media ha moltiplicato le voci, ma non necessariamente le visioni. Se da un lato le piattaforme digitali hanno democratizzato l’accesso alla parola pubblica, dall’altro hanno favorito meccanismi di amplificazione selettiva, in cui vince chi grida più forte, non chi argomenta meglio. I contenuti più virali sono quelli più estremi, emotivi, divisivi. La riflessione, il dubbio, la complessità sono penalizzati da un sistema che premia l’engagement sopra ogni altra cosa.
La conseguenza è una vera e propria infantilizzazione del discorso pubblico, che non interroga più le capacità cognitive dell’elettore, ma solo i suoi riflessi emotivi. La politica si trasforma in un videogioco morale: i “buoni” contro i “cattivi”, le tribù contro le tribù, senza possibilità di mediazione o riconoscimento reciproco. È la fine della cultura del confronto – quella virtù democratica che ci insegnava a vedere nell’avversario un interlocutore, non un nemico.
Ma questa trasformazione riguarda anche il pubblico, non solo i media o la politica. È legittimo chiedersi se parte di questa deriva sia stata inconsapevolmente desiderata: una semplificazione rassicurante, un’esplosione di stimoli facili da digerire, un linguaggio che evita lo sforzo del pensiero critico. A monte, manca un’educazione civica e mediatica capace di formare cittadini in grado di distinguere fatti da opinioni, frame da contenuti, retorica da sostanza.
Il risultato è una società sempre più polarizzata, in cui il dissenso viene vissuto come minaccia, non come risorsa. Quando non si conosce davvero ciò che pensa l’altro, diventa facile attribuirgli intenzioni malvagie, posizioni estreme, identità fittizie. La convivenza democratica si fa fragile, perché si basa su rappresentazioni fantasmatiche e non su divergenze reali, dunque potenzialmente negoziabili.
In questo scenario, la nostalgia per la Tribuna Politica non è solo rimpianto del passato, ma consapevolezza che quel modello – pur con i suoi limiti – garantiva trasparenza, accessibilità e qualità del confronto. Recuperare spazi pubblici in cui le leadership politiche si espongano direttamente, mettendo in gioco la propria visione, la propria coerenza, la propria capacità dialettica, è oggi più urgente che mai. Non si tratta di tornare indietro, ma di riconoscere che la democrazia non può sopravvivere senza luoghi in cui il pensiero politico possa mostrarsi nella sua interezza, e non solo in formato ridotto da social network.
La sfida, dunque, non è solo tecnologica o comunicativa. È profondamente culturale. Si tratta di ricostruire una cittadinanza capace di ascolto, una politica capace di parola, e un ecosistema mediatico che non abbia paura della complessità. Perché solo là dove le parole si incontrano, anche i cittadini possono riconoscersi.
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