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La recente approvazione della legge sul femminicidio da parte del Parlamento italiano rappresenta un passaggio cruciale nella storia giuridica, culturale e civile del nostro Paese. È un segnale forte, un tentativo concreto di rispondere normativamente a una tragedia quotidiana che troppo spesso si consuma nel silenzio delle mura domestiche e nell’indifferenza collettiva. L’introduzione dell’articolo 577-bis nel Codice penale non è solo un aggiornamento tecnico della normativa: è un atto politico e simbolico di riconoscimento. Per la prima volta, l’Italia afferma chiaramente che il femminicidio non è un semplice omicidio aggravato, ma un crimine strutturalmente connesso al genere, all’asimmetria di potere, al desiderio di dominio maschile e al sistematico rifiuto di riconoscere nella donna un soggetto libero, autonomo, pienamente titolare della propria esistenza.

Attribuire a questo fenomeno una definizione giuridica autonoma significa ammettere, finalmente, che l’uccisione di una donna in quanto donna non può essere ridotta a una questione privata, passionale o emergenziale. È, piuttosto, l’estrema manifestazione di una cultura patriarcale ancora viva e resistente, che si nutre di stereotipi, silenzi e complicità trasversali. In questo senso, non posso che accogliere con favore un aspetto che considero sorprendente quanto significativo: il riconoscimento, da parte di una maggioranza politica che fino a ieri negava l’esistenza stessa del patriarcato, della sua influenza nella genesi della violenza di genere. È un passo importante, persino coraggioso, che apre uno spiraglio a un cambiamento più profondo.

La legge, infatti, si muove anche su un piano filosofico, perché obbliga lo Stato e la collettività a interrogarsi sulle radici sistemiche della violenza. Una violenza che non nasce solo dalla devianza individuale, ma affonda le sue radici in una lunga e stratificata storia di disuguaglianze, di ruoli imposti, di narrazioni tossiche sull’identità maschile e femminile. Non è un caso se, ancora oggi, molti uomini crescono interiorizzando l’idea che l’amore implichi possesso, che la gelosia sia una forma di attenzione, che la fragilità sia un disonore.

Dal punto di vista politico, il voto unanime del Senato potrebbe apparire come un raro segno di coesione nazionale. Tuttavia, questa apparente unità solleva un interrogativo profondo: una legge capace di mettere tutti d’accordo non rischia forse di essere troppo rassicurante? Non è forse il segnale che, pur nella sua giustezza, essa si muove prevalentemente su un piano punitivo, dove è più semplice trovare consenso, ma evita accuratamente i terreni scivolosi della prevenzione e della trasformazione culturale?

È proprio qui che si rivela il limite più evidente – e più grave – della nuova legge: l’assenza totale di un piano strutturato e vincolante per l’educazione affettiva e relazionale nelle scuole. Si continua a illudersi che l’inasprimento delle pene basti a dissuadere dalla violenza, trascurando il fatto che quella violenza germoglia ben prima del reato, nei contesti educativi, familiari, nei gruppi di pari, nelle rappresentazioni mediatiche e nei modelli culturali che plasmano il modo in cui bambini e bambine apprendono che amare possa voler dire controllare, possedere, sottomettere.

Il diritto, per quanto necessario, può solo punire dopo. Non può prevenire da solo. Senza una trasformazione culturale, che attraversi la scuola, la famiglia, i media e la società tutta, ogni intervento legislativo rischia di essere una toppa su un tessuto ormai sfilacciato. In questo senso, la mancata inclusione dell’educazione affettiva come elemento obbligatorio del percorso scolastico è una colpa politica, un segno di paura o forse di pigrizia: quella di affrontare il problema alla radice, là dove si forma l’immaginario, la percezione di sé e dell’altro, l’idea stessa di amore, rispetto e libertà.

Giuridicamente, la legge è coerente e ben strutturata: introduce aggravanti importanti, rafforza le misure di tutela per le vittime, prevede formazione per forze dell’ordine e magistrati, e destina fondi agli orfani di femminicidio. Ma resta, in fondo, ancorata a un paradigma di giustizia reattiva, centrato sulla sanzione postuma e sulla protezione successiva.

Ciò che ancora manca è il coraggio di investire sull’unico vero antidoto alla violenza: l’educazione all’empatia, al limite, al consenso, alla differenza. L’educazione all’umano, potremmo dire. Perché finché non ci sarà spazio nelle aule scolastiche per parlare d’amore, di rispetto, di corpo, di fragilità e di rifiuto, tutte le leggi – per quanto nobili e necessarie – arriveranno sempre troppo tardi.

Questa legge è un passo avanti, un passo doveroso. Ma non sarà sufficiente finché non avremo la forza collettiva di immaginare e costruire un mondo in cui la violenza non sia semplicemente punita, ma resa culturalmente impensabile.

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