DIVINITÀ ORWELLIANA


Il Levitico 21:17-23 è la dimostrazione più lampante che la religione, quando viene presa come manuale di istruzioni universale, diventa una barzelletta crudele: nessuno con difetti fisici può avvicinarsi all’altare. Tradotto: se sei cieco, zoppo, gobbo, se hai il naso schiacciato o una cicatrice, Dio non ti vuole nel suo giro. È il regolamento di un club esclusivo dove l’Onnipotente si atteggia a buttafuori snob, pronto a dirti “non sei abbastanza carino per la mia festa sacra”. E qui non si parla di estetica frivola, ma di persone reali: nati con disabilità, segnati dalla vita, ridotti a “contaminazioni” dell’ambiente divino. Un Dio che ti crea difettoso e poi ti vieta l’accesso: praticamente il peggior game designer di sempre, uno che programma bug apposta per poi bannare i giocatori dal server.

Il paradosso è spudorato: onnipotente sì, ma con i gusti da direttore di casting per uno spot pubblicitario. Dio come il manager di Victoria’s Secret: “Sfilano solo i perfetti, gli altri disturbano l’estetica del brand”. È una scena degna di una satira feroce: l’altare trasformato in passerella, il sacrificio ridotto a un evento glamour, i sacerdoti con in mano una lista di “difetti inammissibili” come se stessero selezionando hostess per una fiera. E se ci pensi, la logica è di una violenza glaciale: chi ha il corpo sbagliato non è solo escluso, è reso impuro, inadatto, contaminante. Non sei un essere umano davanti a Dio, sei un errore che rovina la cornice del quadro.

Poi arriva Gesù, che sembra quasi imbarazzato dal disastro ereditato e passa metà del tempo a guarire storpi, ciechi e lebbrosi, come un tecnico chiamato in emergenza a riparare i guasti di un sistema progettato male. È un patch, un aggiornamento, un tentativo di correggere il bug: ma il danno è già fatto, perché la mentalità resta. E lo si vede ancora oggi, nei predicatori fondamentalisti che brandiscono questi versetti come manganelli morali, convinti che se Dio non sopportava i difetti allora neanche loro debbano farlo. Il loro è un sadismo benedetto, una cattiveria sacralizzata, e il bello è che proprio loro, con le loro facce da cartone animato mal riuscito e le loro pance gonfie di birra e rancore, sarebbero i primi a essere scartati alla porta del tempio. Ma questo, ovviamente, non lo notano.

E non illudiamoci che sia un problema confinato all’antichità o alle frange religiose: la stessa logica da selezione all’ingresso governa oggi i social network. Il tempio di Gerusalemme è stato sostituito da Instagram, i sacerdoti da algoritmi, i sacrifici da selfie, e il criterio è identico: se non sei abbastanza bello, levigato, filtrato, vieni respinto. Il Levitico diceva “non ti avvicinare all’altare”, oggi TikTok dice “non ti avvicinare al feed”. È sempre la stessa ossessione millenaria per la perfezione estetica, la stessa paura viscerale dell’imperfezione che diventa regola, dogma, legge invisibile.

E allora viene da chiedersi: dov’è la vera bestemmia? Non è certo il cieco che osa offrire un sacrificio, ma l’umanità che continua a erigere barriere, a inventare criteri di esclusione, a mascherare la propria mediocrità dietro l’alibi del “così vuole Dio” o del “così funziona l’algoritmo”. La bestemmia vera è trasformare il sacro in un locale notturno con selezione all’ingresso, dove il biglietto si paga in perfezione fisica, in conformità estetica, in uniformità culturale.

Il sospetto, a questo punto, diventa inevitabile: forse il Dio del Levitico non era altro che un’invenzione proiettata dalle nevrosi dei sacerdoti, un idolo creato per legittimare la loro paura del diverso e il loro culto della purezza. Forse quell’idea di divino non era che lo specchio della nostra ossessione umana per l’ordine, la simmetria, la bolla rassicurante in cui non ci sia nulla che ci ricordi la fragilità della vita. Un Dio che respinge i difettosi non è un Dio, è un condominio con il regolamento più cretino mai scritto.

E così, millenni dopo, eccoci ancora qui: a compilare liste di imperfezioni inaccettabili, a filtrare, a selezionare, a giudicare. I nostri templi sono chiese che escludono, social che penalizzano, comunità che si rinchiudono in se stesse. Dentro restano solo i cloni patinati, le copie conformi, i profili levigati; fuori, l’umanità vera, quella fatta di cicatrici, di corpi segnati, di volti non standard. E se Dio esistesse davvero, probabilmente la prima cosa che farebbe sarebbe ribaltare l’altare, cancellare i filtri, espellere noi, i custodi della purezza, gli arbitri della perfezione, i piccoli burocrati del sacro che confondono la fede con il diritto di discriminare.

Perché alla fine, se c’è un messaggio da imparare, è che non siamo figli di un Dio snob, ma prigionieri delle nostre stesse paure. E se davvero continuiamo a venerare questa logica del Levitico, allora non abbiamo bisogno di un inferno: ci basta guardare Instagram.

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