INSTALLAZIONI ARTISTICHE
Il Ponte sullo Stretto non è solo un progetto ingegneristico: è un’opera d’arte concettuale, un’installazione permanente di quel genio italico che trasforma il nulla in evento mediatico e la promessa in patrimonio culturale. È la Sagrada Famiglia della politica delle infrastrutture: non importa se non verrà mai terminata, perché il suo vero valore non sta nella funzione, ma nel racconto, nella mitologia che la circonda da decenni.
Che spettacolo! Ogni legislatura il ponte risorge come l’araba fenice, per poi dissolversi al cambio di governo, pronto a tornare in vita al prossimo giro di propaganda. È quella che io chiamo "la politica del futuro anteriore": non importa fare, basta aver promesso di fare.
È un rito collettivo, un grande teatro politico che unisce il Paese molto più di quanto potrebbe fare una vera infrastruttura: non importa se Sicilia e Calabria restano scollegate dal resto del mondo, basta sapere che un giorno saranno collegate. Un giorno, forse, quando i robot governeranno il pianeta e i treni italiani raggiungeranno la velocità della luce [sempre con 40 minuti di ritardo].
E come non restare incantati davanti alla logica visionaria di investire 14 miliardi in acciaio e cemento per superare tre chilometri di mare, quando basterebbero 14 milioni per evitare che i pendolari siciliani viaggino su carrozze che sembrano vagoni piombati del dopoguerra? Ma è proprio questo il segreto dell’arte politica: guardare lontano, verso un futuro grandioso, ignorando con eleganza le buche sotto i propri piedi.
Il paragone con il ponte dell’Øresund, che collega due Paesi con servizi pubblici impeccabili, è un colpo di genio narrativo. Che importa se Copenaghen ha piste ciclabili che sembrano autostrade e Messina non riesce a garantire autobus dopo le otto di sera? È un dettaglio marginale, un’inezia da burocrati. Ciò che conta è l’idea: unire mondi diversi con un’opera simbolica, come se bastasse un ponte per trasformare una regione in Scandinavia.
Ma il vero capolavoro sta nella scelta del luogo: costruire la più grande campata sospesa del mondo proprio sopra una faglia sismica iperattiva. Non è follia, è estetica: come dipingere un quadro su un vulcano in eruzione. Gli ingegneri chiamano queste scelte “sfide”, i poeti le chiamerebbero “tragedie in attesa di autore”. Eppure il Ministro delle Infrastrutture rassicura con la sua retorica inconfondibile: il ponte resterà in piedi anche se un terremoto dovesse spazzare via città intere. Una promessa epica, quasi biblica: Messina cadrà, Reggio crollerà, ma il ponte, come un moderno Colosseo, resterà a testimoniare la grandezza del potere romano… pardon, romano-padano.
C’è poi l’aspetto sociale, altrettanto commovente. Il Ministro promette centinaia di migliaia di posti di lavoro, naturalmente gestiti da imprese del Nord, giusto per farlo deglutire dal popolo padano. Ai siciliani e ai calabresi resterà la gioia spirituale di osservare i cantieri, magari vendendo granite e arancini agli operai lombardi: un modello innovativo di economia turistica, un “cantierismo esperienziale” che potrebbe diventare patrimonio UNESCO.
E come trascurare la questione idrica? Perché sprecare l’acqua a uso domestico, quando può servire a impastare cemento? È una scelta poetica: destinare alle betoniere quella risorsa che i cittadini ottengono col contagocce, come se l’acqua dovesse prima servire all’epopea nazionale e solo dopo ai bisogni quotidiani. È la materializzazione del motto “prima il ponte, poi le persone”.
Il capitolo trasparenza, poi, è da manuale di sociologia applicata. Nessuno può dubitare dell’integrità delle imprese che gestiranno l’opera, forti di esperienze luminose come il MOSE, Expo e il G8 alla Maddalena. Si tratta di autentici artisti della fatturazione creativa, capaci di trasformare un preventivo in un poema epico a puntate. Non stiamo parlando di corruzione: è solo una raffinata tradizione nazionale, come il presepe o la pasta al forno.
In definitiva, il Ponte sullo Stretto non va giudicato come infrastruttura: è un’opera simbolica, una narrazione collettiva, il mito fondativo del Sud moderno. È l’eterna promessa che tiene viva la speranza, il “domani” che non arriva mai, l’utopia sospesa tra Calabria e Sicilia.
Quando – e se – verrà completato, i viaggiatori avranno finalmente la possibilità di attraversare lo Stretto in pochi minuti, per poi ritrovarsi bloccati ore in fila su strade che si sciolgono al sole o su treni che arrancano a 40 all’ora. Ma che importa? Sarà un viaggio iniziatico, un pellegrinaggio tra passato e futuro, un’esperienza mistica che nessun turista scandinavo potrà dimenticare.
E così, ancora una volta, l’Italia potrà vantare un primato mondiale: non quello delle infrastrutture efficienti o dei servizi pubblici di qualità, ma quello dell’immaginazione politica. Perché se i danesi costruiscono ponti per collegarsi, noi li costruiamo per sognare.
Ed è forse proprio lì il destino del Ponte: non nel cemento, ma nella memoria. Immaginatelo ridotto a modellino in scala, mezzo arrugginito, dentro una teca incrinata di un museo civico in rovina [come il contesto attuale del territorio], con i muri scrostati, i neon che sfarfallano e un custode assonnato che ripete ai visitatori: “Ecco, signori, il ponte che avrebbe cambiato il Sud”. Un’opera nata, ma già diventata reliquia: reliquia di un sogno collettivo, promessa imbalsamata, totem nazionale.
E quel museo, naturalmente, diventerebbe subito attrazione turistica. Le scolaresche in gita, i pensionati in pullman, i turisti stranieri con la guida Lonely Planet.
È lì fuori, imponente, bellissimo, un prodigio d’ingegneria che sfida mari e venti, con la sua campata sospesa su corde di un’arpa titanica. Una perfezione che potrebbe stare accanto al Golden Gate o al Millau.
Invece si erge in un paesaggio che lo tradisce: un monumento scintillante immerso nella desolazione. Perché una volta che lo attraversi, ti accoglie il nulla, solo l’eco dei proclami di inaugurazione, ormai inghiottiti dal vento dello Stretto.
È come se l’Italia avesse costruito un portale barocco magnifico — archi dorati, colonne tortili, stucchi raffinati — davanti a una fila di case fatiscenti, abitate da persone che faticano ad arrivare a fine mese. Una quinta teatrale grandiosa, dietro la quale si apre il nulla quotidiano, fatto di disservizi, precarietà, abbandono. Lì il Ponte sembra quasi imbarazzato: un monumento alla modernità trapiantato in un paesaggio che ancora chiede acqua potabile regolare, trasporti locali, strade senza buche.
Il risultato è un paradosso tutto italiano: un capolavoro di ingegneria che diventa un mausoleo del vuoto, come quelle piazze monumentali dove troneggia una statua equestra e tutt’intorno case scrostate, panni stesi alle finestre e vite difficili. Un trionfo che non riesce a generare vita, un’opera che collega le sponde ma non le persone. E forse il vero destino del Ponte, alla fine, è proprio questo: essere l’ennesimo monumento alla sproporzione tra ciò che sappiamo sognare e ciò che sappiamo mantenere.
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