UNTORI DIGITALI
C’è un istante preciso, quasi impercettibile, in cui l’informazione smette di essere informazione e diventa veleno. È quando un fatto di cronaca – un reato, una rissa da bar, un furto da quattro soldi – non viene raccontato per quello che è, ma per quello che può rappresentare: un’occasione d’oro per confermare i pregiudizi di chi non vede l’ora di trovare un “nemico” pronto all’uso. È il momento magico in cui la nazionalità del responsabile, che in teoria dovrebbe essere un dettaglio da modulo di polizia, si trasforma invece nella colonna portante del racconto. Et voilà: un episodio isolato diventa un processo collettivo a un intero popolo.
Non è che serva un genio del male per orchestrare la cosa. Anzi, il trucco è vecchio quanto l’uomo: il giochino del “noi” contro “loro”. Solo che nell’era dei social, dove un titolo scritto coi piedi fa più danni di un uragano, questo giochino ha acquisito la grazia di un lanciafiamme in un pagliaio. Basta un post buttato lì, un titolo strillato, ed ecco migliaia di persone trasformate in piranha digitali pronti a sbranare chiunque porti il cognome “sbagliato”.
Il copione è sempre lo stesso: prendi un fatto, sottolinea che il colpevole è straniero [meglio se con aggettivi tipo “irregolare” o “extracomunitario”, fa più scena], e lascia che la gente arrivi da sola alle conclusioni. Non serve neanche dirlo apertamente: basta ripetere in loop “cittadino rumeno”, “immigrato albanese”, “straniero clandestino” e il collegamento scatta da solo. È come il jingle pubblicitario più subdolo della storia: ripeti abbastanza volte e diventa realtà.
La cosa divertente – si fa per dire – è che noi italiani dovremmo conoscerla a memoria questa pagliacciata. I nostri nonni, quando arrivavano negli Stati Uniti con le valigie di cartone, non erano accolti come modelli di integrazione. Erano “dagos”, “wops”, la feccia del Mediterraneo. Ogni delitto di un connazionale era la prova scientifica che gli italiani erano geneticamente violenti, mafiosi per natura e culturalmente al livello di una capra. I giornali americani non perdevano occasione per sbattere “italian criminal” a caratteri cubitali. Ma tranquilli, oggi la parte degli stronzi la recitiamo noi, e con grande convinzione.
Non serve neanche scavare così lontano. Basta guardare la storia recente di casa nostra: milioni di meridionali che salgono al Nord per lavorare trattati come appestati. “Terroni”, “africani”, untori di malattie. I cartelli “non si affitta ai meridionali” erano appesi ovunque, mica solo nelle barzellette. Ogni lite, ogni furto, ogni colpo di coltello diventava la prova regina: “ecco, sono loro il problema”. Sì, proprio noi, che oggi storciamo il naso davanti al “nuovo straniero”.
Il punto è che la storia si ripete con una precisione da manuale: cambia il passaporto del capro espiatorio, ma il meccanismo è sempre lo stesso. E funziona alla grande. Divide, crea paura, tiene la gente incollata ai titoli indignati. È il fast food della comunicazione: nutrimento tossico, veloce, facile da digerire e perfetto per ingrassare i politici che ci sguazzano dentro.
Il paradosso? Gli stessi che dovrebbero sapere meglio – perché hanno nonni insultati oltreoceano o padri trattati da paria al Nord – oggi ci sguazzano felici in questo teatrino. Politici e opinionisti che ricordano benissimo quanto bruciava essere additati come criminali solo per il cognome, ma che oggi applicano lo stesso trucco con una spudoratezza da manuale. Memoria storica? Solo quando conviene.
La verità è che la nazionalità di chi commette un crimine conta quanto il colore dei calzini che indossa: zero assoluto. Ma dire così è noioso, non fa vendere, non scalda i social. Vuoi mettere invece il brivido di un bel titolo: “Straniero ruba, italiani indignati”?
Alla fine, dietro questa ossessione c’è la solita paura della complessità. È molto più comodo credere che “tutti i romeni rubano” o che “tutti i marocchini spacciano” piuttosto che fare lo sforzo di pensare. Il problema? Che questo “sforzo evitato” ci costa carissimo: comunità spaccate, odio gratuito, società che si guardano in cagnesco.
E allora forse è ora di guardarsi allo specchio e ammettere che il vero crimine non è quello raccontato nelle cronache nere, ma quello che commettiamo ogni volta che usiamo l’informazione come arma di distruzione sociale. Perché in questo gioco non vince nessuno. Tranne, ovviamente, chi campa di odio.
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