UTILI IDIOTI
C’è qualcosa di profondamente paradossale nel modo in cui la politica contemporanea affronta la questione dell’alterità, e questo paradosso rivela molto più di quanto si creda sulla natura del potere e sulla costruzione dell’identità collettiva. Quando vediamo governi che da un lato regolarizzano centinaia di migliaia di persone e dall’altro alimentano narrative escludenti, non assistiamo solo a una contraddizione strategica, ma a un’espressione del “doppio vincolo” della modernità politica, una specie di trasformismo 2.0 che Gramsci forse avrebbe riconosciuto con inquietante familiarità. La politica moderna è costretta a muoversi su un crinale stretto: da un lato le esigenze della governance – pragmatiche, operative, inclusiviste – e dall’altro la necessità di mobilitare consensi attraverso l’amplificazione di paure, semplificazioni e costruzione del nemico. Ed è qui che riemerge in tutta la sua forza la questione foucaultiana del potere come produttore di soggettività: non si limita a reprimere, ma genera identità, discorsi, percezioni, al punto che lo stesso migrante viene contemporaneamente rappresentato come risorsa economica imprescindibile e come minaccia esistenziale da contenere. Questa dinamica si intensifica nel contesto della globalizzazione e della crisi dello Stato-nazione tradizionale, dove le identità si frammentano, i confini si moltiplicano e la politica, per mantenere legittimità, è costretta a rincorrere formule sempre più ambigue e contraddittorie. La logica del mercato e quella dell’identità si scontrano, si sovrappongono, si strizzano l’occhio e poi si pugnalano alle spalle, generando una narrazione schizofrenica che però è perfettamente funzionale a un sistema che ha bisogno sia di braccia a basso costo sia di confini simbolici da brandire in campagna elettorale. Questo schema, per quanto attualissimo, ha radici storiche profonde: l’Impero Romano che concede la cittadinanza ma mantiene gerarchie culturali, gli Stati nazionali ottocenteschi che si definiscono escludendo l’altro per poi assimilarlo. Quello che oggi cambia è la velocità, l’intensità, la visibilità di questi processi, amplificati da un ecosistema mediatico che trasforma ogni opinione in uno slogan e ogni slogan in un’arma. L’“utile idiota”, in questo quadro, non è tanto l’ingenuo manipolato, ma il sintomo vivente di un analfabetismo emotivo collettivo: una difficoltà crescente a tollerare la complessità, a riconoscere l’ambivalenza, a non cadere nella tentazione della scorciatoia semantica. Parliamo della banalità del male come di una partecipazione inconsapevole all’oppressione; oggi quella banalità si è fatta algoritmo, si è sedimentata nei meccanismi della comunicazione, nell’economia dell’attenzione, nei like che premiano l’estremo. I media non si limitano più a manipolare: costruiscono veri e propri regimi di verità paralleli, in cui parole come “integrazione” o “sicurezza” assumono significati diversi a seconda della bolla discorsiva di appartenenza. Viviamo in mondi separati che condividono solo la superficie del linguaggio, ma non più i riferimenti comuni. Ed è qui che si apre la vera questione: qual è oggi il ruolo dell’intellettuale, del cittadino critico, della cultura politica? Siamo di fronte non solo a una crisi cognitiva, ma strutturale: non si tratta di saperne di più, ma di capire meglio come si formano le nostre convinzioni e quali logiche di potere le sostengono. Il fact-checking, l’educazione civica, sono rimedi necessari ma insufficienti se non si accompagna a una riflessione più radicale sul nostro modo di abitare la democrazia. L’immigrazione, in questo contesto, è più che un problema da gestire: è un sintomo, un termometro che misura la febbre di un sistema politico incapace di tenere insieme universalismo e particolarismo, inclusione e significato. Il doppio vincolo di cui parlavamo diventa paralisi o regressione, e la tentazione della risposta semplice – il muro, l’espulsione, il “prima noi” – diventa irresistibile proprio perché falsa. Forse la vera sfida non è sciogliere la contraddizione, ma imparare a starci dentro con più consapevolezza e responsabilità, accettando che la complessità non è un problema da risolvere ma una condizione da abitare. Serve una rivoluzione culturale che tocchi l’educazione, la comunicazione, il senso stesso della partecipazione democratica, ripensando il ruolo delle emozioni senza demonizzarle, ma nemmeno lasciandoci governare da esse. In fondo, dietro la frustrazione urlata o silenziosa che attraversa il dibattito pubblico, c’è il sentimento di un’impotenza generalizzata, di una politica che sfugge al controllo razionale e sembra obbedire a logiche opache. Ma proprio per questo occorre una critica che sia insieme radicale e responsabile, che sappia smontare le strutture del potere senza cadere nella trappola del complottismo o nella nostalgia per un ordine che non è mai esistito.
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