15 MINUTI
Warhol l’aveva buttata lì, con la leggerezza che solo i profeti inconsapevoli sanno avere: quindici minuti di notorietà per ciascuno, un buffet dell’ego dove ognuno, prima o poi, avrebbe avuto diritto alla propria porzione di applausi e luci artificiali. Ma nessuno gli disse che la matematica è una bastarda inflessibile, e che quei quindici minuti, se dovessero davvero essere distribuiti con equità millimetrica, richiederebbero una fila lunga quanto l’evoluzione della specie: duecentrotrentamila anni circa di attesa per tutti gli otto miliardi di persone, più o meno il tempo necessario perché l’Homo sapiens diventi prima cyborg, poi polvere cosmica, poi forse un ricordo in qualche archivio digitale che nessuno saprà più aprire. E qui si apre la contraddizione ontologica più grande della modernità: la nostra fame di riconoscimento collide con la fisica implacabile del tempo, e invece di trovarci davanti a una filosofia dell’essere, ci ritroviamo a praticare una filosofia del cronometro, un’esistenza scandita a cucchiaini, come il tè tiepido di una mensa universitaria. La fila, sì, la fila diventa metafora definitiva della condizione umana: aspettare, sudare, mormorare, fantasticare sul turno che forse non arriverà mai, e quando finalmente arriva scoprire che quei quindici minuti non bastano neppure a togliersi la giacca, figurarsi a costruire un mito. È come arrivare davanti alle telecamere e balbettare, dopo millenni di attesa, il proprio nome con la stessa eleganza di chi inciampa entrando in chiesa: l’apoteosi dell’imbarazzo travestita da opportunità. E poi: chi stabilisce l’ordine della fila? Il sorteggio divino? L’alfabeto? La statistica demografica? O magari il solito privilegio, per cui i più ricchi passano avanti e i più poveri rimangono a sgolarsi in fondo, col biglietto in mano che non verrà mai chiamato? E che dire dei furbetti, degli intraprendenti, degli influencer di professione che già saltano la coda, piazzando dirette e selfie mentre il resto dell’umanità aspetta in silenzio? Immaginate la burocrazia necessaria: moduli, timbri, numerini digitali, regolamenti sul comportamento decoroso in fila per la fama; un Ministero dell’Effimero che regola il traffico di ego come se fossero pratiche edilizie. Nel frattempo la commedia va avanti: milioni di persone bruciano i propri quindici minuti in spettacoli televisivi che puzzano di second’ordine, in post social che diventeranno prove d’accusa nella biografia futura, in pubblicità di creme dimagranti e bevande miracolose che nessuno berrebbe neanche sotto tortura. Ed ecco il punto: non è la conquista della fama il problema, ma la sua gestione, la capacità di non esserne divorati, di non ridursi a marionette isteriche che ridono, piangono e urlano sul palco come se stessero recitando il dramma della propria inadeguatezza. A questo punto l’idea di vendere il proprio turno suona meno cinica e più geniale: trasformare la notorietà in bene commerciabile, quotarla in borsa, metterla all’asta come un quadro di Basquiat. Chi ha qualcosa da dire compra il posto, chi non ha nulla incassa e sparisce nell’anonimato felice, una redistribuzione dell’attenzione che neanche Rawls, nella sua giustizia ideale, aveva osato immaginare. Il paradosso, però, rimane: tutti vogliono essere speciali, ma se tutti lo sono allora nessuno lo è, e così l’attesa diventa eterna, e il desiderio si trasforma in frustrazione cronica, alimentando un’economia dell’illusione che non produce altro che nuove code, nuove regole, nuovi fallimenti. Forse l’unica forma autentica di celebrità oggi rimasta è quella di rinunciare alla celebrità, diventare famosi proprio per non aver mai voluto esserlo, il santo laico che guarda il circo da lontano e scuote la testa, ridendo. E mentre intanto il tempo scorre, implacabile, ci dimentichiamo che i nostri quindici minuti non sono una promessa da riscattare in futuro, ma il presente stesso che stiamo consumando, minuto dopo minuto, mentre sogniamo un palcoscenico che probabilmente non arriverà mai.
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