FRA ANIMA E CORPO

Il dibattito sull’aborto si colloca da sempre in un territorio di confine: da un lato l’anima, intesa come principio vitale o dimensione spirituale, dall’altro il corpo, realtà concreta e tangibile, prima e più evidente frontiera della libertà individuale. L’anima resta concetto sfuggente, mutevole, interpretabile secondo prospettive religiose, filosofiche o culturali diverse e spesso inconciliabili. Proprio per questo non può essere trasformata in norma universale senza correre il rischio di imporre una visione particolare a chi non la condivide. Il corpo, invece, non ha bisogno di essere interpretato: è ciò che ci appartiene in modo irriducibile, lo spazio attraverso cui ognuno esercita la possibilità di accogliere o rifiutare, di dire sì o no, di scegliere se continuare una gravidanza o interromperla.

Quando si discute di aborto, dunque, la posta in gioco non è un concetto astratto di “vita” calato dall’alto, ma il diritto concreto di una donna a decidere del proprio corpo. Nessuno Stato può obbligare un individuo a donare sangue, midollo o un organo per salvare un’altra vita, neppure quella di un figlio. La libertà corporea è riconosciuta come inviolabile persino di fronte alla più drammatica delle urgenze: la sopravvivenza di un altro essere umano. Pretendere che una donna debba portare avanti una gravidanza contro la propria volontà significa introdurre un’eccezione che non vale per nessun altro, riducendo il suo corpo a strumento e negandole quella stessa inviolabilità che altrove consideriamo intoccabile.

Non è un caso che il corpo femminile sia stato, nel corso della storia, il principale terreno di controllo, regolamentazione e potere. La possibilità di decidere su di esso diventa allora il banco di prova della libertà reale: se una donna non può scegliere per se stessa, la sua autonomia viene negata alla radice. Ma questo discorso non riguarda solo le donne: anche le persone LGBTQ+, e in particolare chi rivendica il riconoscimento della propria identità di genere, conoscono lo stesso meccanismo di imposizione dall’esterno. Ancora oggi, molte legislazioni e culture si appellano a una presunta “legge naturale” o a un ordine divino della Creazione per negare il diritto all’autodeterminazione delle persone trans e non binarie, come se la spiritualità o la religione potessero diventare strumenti di disciplinamento dei corpi.

L’anima, per quanto sacra sul piano personale, non può trasformarsi in criterio normativo collettivo: ciò che per alcuni è dono divino per altri è coscienza, e per altri ancora illusione. Lo stesso vale per il genere e l’orientamento sessuale: ridurli a categorie rigide e predeterminate significa negare la pluralità dell’esperienza umana e imporre una visione unica della vita, spesso giustificata in nome della religione. Il corpo, invece, è un’esperienza universale: è ciò che ci radica nella realtà, e la sua inviolabilità rappresenta un principio condivisibile senza dogmi.

Anche la scienza offre un punto di riferimento che sfugge alle interpretazioni arbitrarie. La medicina stabilisce che la morte coincide con la cessazione irreversibile dell’attività cerebrale: la fine della vita è segnata dall’assenza di coscienza. Per coerenza, non si può pensare che l’inizio della vita come “persona” possa essere definito indipendentemente da una qualche forma di attività cerebrale. Allo stesso modo, non si può negare l’identità di genere di una persona semplicemente perché contrasta con un’idea tradizionale di natura: la psicologia, la biologia e la stessa esperienza delle persone mostrano che l’identità è complessa, stratificata e irriducibile a un dogma. Attribuire valore giuridico a interpretazioni religiose della Creazione significa fare un atto simbolico o culturale, non scientifico né razionale.

Difendere il diritto all’aborto, come difendere i diritti LGBTQ+, significa dunque difendere l’individuo come soggetto di libertà, riconoscendo il suo corpo e la sua identità come territori che nessuno può reclamare al posto suo. Significa considerare la sacralità non come un concetto astratto, ma come possibilità concreta di scelta, di rifiuto, di autodeterminazione. Senza questa possibilità, l’anima stessa rischia di trasformarsi in catena, ridotta a pretesto di un potere che decide dall’esterno.

Per questo l’aborto, come il riconoscimento di genere o il matrimonio egualitario, non sono soltanto questioni mediche, giuridiche o morali: sono prove di maturità collettiva. Il segno di una società che vuole definirsi davvero libera. Una società che protegge il corpo, l’identità e il diritto di scelta non limita la spiritualità, ma al contrario ne crea le condizioni: lascia a ciascuno lo spazio per costruire la propria idea di anima, di fede, di senso. La libertà autentica nasce dal corpo e dall’identità, e da lì si allarga al resto: negarla significa spezzare il filo che tiene insieme ciò che vediamo e ciò che resta invisibile.

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