GEMELLI DIVERSI


«[…] e il mio futuro è un presente senza troppi perché è la fottuta realtà ed è proprio quello che siamo non lo scegliamo attento è sopravvivenza l’odio è un fatto di appartenenza vi odio è un fatto di appartenenza».

Queste parole, tratte da Odio dei 99 Posse, album cult del rap italiano militante del 1993, non sono solo un grido di rabbia generazionale, ma una diagnosi spietata della condizione umana in contesti di esclusione sociale e politica. Il gruppo napoletano, nato dalle ceneri dei movimenti studenteschi e operai degli anni ’90, usa il rap come arma per denunciare le ingiustizie, trasformando l’odio non in un’emozione astratta, ma in un meccanismo tribale: uno strumento di sopravvivenza che rafforza l’identità del gruppo contro l’esterno percepito come nemico. In un presente “senza troppi perché”, l’odio diventa inevitabile, non scelto, ma radicato nell’appartenenza. Ieri, 13 settembre 2025, questo verso ha riecheggiato con una precisione profetica nel dibattito politico italiano, segnato da un’escalation di accuse reciproche tra destra e sinistra. L’omicidio dell’attivista conservatore americano Charlie Kirk, avvenuto l’11 settembre nello Utah, ha acceso i riflettori su un clima di polarizzazione estrema. Da un lato, la premier Giorgia Meloni accusa la sinistra di minimizzare o persino “festeggiare” la violenza politica; dall’altro, figure come Elly Schlein ribattono che è proprio la destra a fomentare un “clima incandescente” con retorica divisiva. Questa spirale non è casuale: riflette esattamente l’idea dei Posse, dove l’odio si nutre di appartenenza ideologica, trasformando il confronto democratico in una lotta per la sopravvivenza tribale. Ma l'odio espresso dalle "tribù" è anche lo stesso? 

La differenza nello spargere odio in politica non si misura nel volume della voce o nella veemenza delle parole, ma nella direzione verso cui esse vengono lanciate. C’è un’enorme distanza, spesso sottovalutata, tra chi critica duramente coloro che diffondono odio e chi, invece, quell’odio lo riversa realmente e senza freni contro individui o gruppi. Nel primo caso, la critica può apparire aspra, polemica, talvolta persino eccessiva, ma è pur sempre una reazione: è la denuncia di un meccanismo pericoloso che mira a dividere la società, a tracciare confini artificiali tra chi merita dignità e chi, secondo alcuni, ne sarebbe privo. In questo senso, l’attacco non è diretto contro la persona in quanto tale, ma contro l’azione di alimentare disuguaglianza, esclusione, discriminazione. È un’ostilità che, paradossalmente, nasce per difendere: difendere il principio di convivenza, di pluralismo, di rispetto delle differenze. Nel secondo caso, invece, l’odio non è risposta ma strumento, non è denuncia ma progetto politico. È un odio che non distingue, che colpisce in modo indiscriminato chiunque esca dal perimetro ristretto di ciò che viene definito “normale” o “accettabile”: che sia per il colore della pelle, per l’origine geografica, per il modo di pensare o anche solo per il fatto di essere un migrante. È un odio che non discute le idee ma cancella le persone, che non apre al confronto ma costruisce muri, che non cerca soluzioni ma individua capri espiatori. Ed è proprio qui la differenza sostanziale: chi critica l’odio lo fa in nome di un principio di giustizia, mentre chi lo diffonde lo fa per consolidare un potere fondato sulla paura e sull’esclusione. Confondere i due atteggiamenti significa legittimare la violenza simbolica di chi semina rancore e, al tempo stesso, screditare la voce di chi prova a contrastarla. La politica, quando si lascia sedurre dall’odio, non è mai neutrale: può essere strumento di difesa della convivenza o arma di aggressione contro la diversità. Sta a noi riconoscere la differenza e decidere da quale parte stare.

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