I FOLLI E I SORDI
Il “contribuente” è ormai diventato un feticcio del dibattito pubblico italiano. Lo si evoca come una divinità laica ogni volta che si vuole colpire un’iniziativa non gradita, mai quando si tratta di giustificare spese inutili o palesemente propagandistiche. È accaduto anche con la Flottiglia SUMUD: due fregate della Marina militare schierate a protezione di una missione umanitaria vengono bollate come scandalo perché “pagate dal contribuente”. Un’ovvietà spacciata per argomento dirimente, come se il solo fatto che le navi siano pubbliche rendesse l’operazione sospetta.
Eppure, quando si spendono decine di milioni per centri di detenzione in Albania rimasti deserti, o per organizzare deportazioni simboliche di poche decine di persone, il contribuente scompare dal discorso. In quei casi, lo spreco diventa improvvisamente patriottico, un “segnale politico” che giustifica qualunque costo. La spesa per la propaganda è accettata senza fiatare, mentre quella per la solidarietà internazionale diventa un oltraggio.
Il paradosso è che il contribuente reale non è affatto lo sprovveduto che i talk show raccontano. Sa distinguere tra un’operazione che salva vite e afferma valori costituzionali, e un teatrino buono solo per alimentare una campagna elettorale. Ma nel dibattito mediatico prevale la sua caricatura: un contribuente di cartapesta, indignato a comando, evocato solo per costruire uno scandalo morale prefabbricato.
È qui che l’aforisma attribuito a Nietzsche torna con forza: «coloro che furono visti danzare vennero giudicati pazzi da quelli che non potevano sentire la musica». Oggi chi porta aiuti viene trattato come un idealista fuori dal mondo, mentre chi sperpera denaro pubblico per inscenare respingimenti viene acclamato come lucido e realista. In realtà, non sono i danzatori a essere folli: sono gli spettatori, incapaci di sentire la musica dell’umanità, assordati dal tamburo della propaganda.
E finché continueremo a confondere la danza con la follia e la propaganda con il buon senso, il contribuente resterà ciò che è diventato: non un cittadino da rispettare, ma una maschera retorica da agitare al ritmo di slogan che non conoscono più la musica della solidarietà.
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