IL SENSO DEL DIVINO
Il rapporto tra l'uomo e il divino rivela forse la caratteristica più distintiva della nostra specie, quella tensione verso ciò che ci trascende che non trova equivalenti nel regno animale e che attraversa tutte le epoche e culture umane senza eccezioni. Non si tratta semplicemente di una curiosità intellettuale o di un bisogno di spiegazioni razionali, ma di qualcosa di più profondo e inquietante: l'impossibilità di accettare il mondo così com'è, di vivere serenamente entro i confini della propria esistenza finita. Basta osservare un animale domestico per comprendere la radicalità di questa differenza: un gatto che vede il padrone accendere la televisione o guidare un'automobile non si stupisce di queste "magie", non elabora teologie sulla natura miracolosa della tecnologia, ma integra semplicemente questi fenomeni incomprensibili nella propria routine quotidiana. Il gatto vive in un presente perpetuo, adattandosi pragmaticamente a ciò che trova senza interrogarsi sui significati ultimi, mentre l'uomo è costitutivamente inadeguato a questa accettazione. La coscienza della propria mortalità gioca certamente un ruolo cruciale in questa dinamica, ma forse non è tanto la paura della morte quanto la percezione di una sproporzione originaria tra l'infinità dei nostri desideri e la finitezza della nostra condizione a generare quella che potremmo chiamare la "dislocazione religiosa" dell'essere umano. Siamo troppo grandi per il mondo in cui viviamo, sempre altrove rispetto a dove ci troviamo, incapaci di quella perfetta aderenza all'esistenza che caratterizza gli altri viventi.
Questa sproporzione si manifesta nella nostra irresistibile tendenza a trasformare la superiorità in sacralità: se un uomo incontrasse una civiltà infinitamente più avanzata della nostra, difficilmente la percepirebbe come una semplice differenza di grado tecnologico, ma vi riconoscerebbe immediatamente qualcosa di divino, costruendo attorno ad essa mitologie e forme di adorazione. È probabilmente così che sono nati molti degli antichi pantheon, come tentativi di dare senso a forze naturali o culturali che superavano la comprensione umana. Ma la paradossalità di questa dinamica raggiunge il suo culmine nel fatto che l'uomo ha spesso divinizzato proprio quegli animali che osservava vivere con quella naturalezza che a lui era preclusa. L'aquila diventa messaggera degli dèi per il suo volo che sfida l'impossibilità umana di elevarsi, il serpente assume valenze sacre per la sua capacità di mutare pelle e rinnovarsi, il gatto viene venerato dagli egizi forse proprio per quella perfetta aderenza all'esistente che l'uomo non riesce a raggiungere. Abbiamo trasformato in divinità creature che possedevano spontaneamente ciò che a noi risulta irraggiungibile: la coincidenza con se stesse, l'assenza di quella lacerazione che ci condanna a cercare sempre altrove il nostro compimento. In questo rovesciamento si rivela tutta l'ironia della condizione umana: l'animale che ha sviluppato la capacità di adorare finisce per adorare l'innocenza perduta di chi non ha bisogno di adorare nulla.
Ma quello che colpisce in questo processo non è tanto l'ignoranza che cerca spiegazioni, quanto il riconoscimento automatico di una gerarchia che ci trascende e che viene immediatamente investita di carattere sacro. Gli animali non fanno questo: convivono con la nostra superiorità senza adorarla, considerandoci parte dello stesso branco, anzi spesso trattandoci come servitori disponibili per i loro bisogni. In loro manca quella che potremmo chiamare la "dimensione gerarchica del sacro", quella capacità tipicamente umana di ordinare l'esistenza secondo piani di realtà diversi, di percepire gradazioni nell'essere che vanno dal profano al santo. Non è un caso che tutte le civiltà abbiano sviluppato cosmologie stratificate, con cieli e inferni, dei maggiori e minori, spiriti e demoni: questa tendenza a gerarchizzare il reale sembra essere un tratto antropologico fondamentale, forse più importante della razionalità stessa nel definire la specificità umana. La domanda se il divino esista realmente o sia una nostra invenzione diventa allora secondaria rispetto a un'evidenza più basilare: l'uomo è quell'animale che non può fare a meno di cercare il divino, di inventarlo se non lo trova, di costruire templi e altari anche quando proclama la morte di Dio. Questa ricerca incessante, più che le risposte che produce, è ciò che ci distingue da ogni altro vivente e forse la chiave per comprendere non solo la religione, ma l'intera avventura culturale dell'umanità. Siamo l'unica specie che vive di domande, che trasforma l'incomprensibile in mistero e il mistero in oggetto di venerazione, che non riesce a guardare il cielo stellato senza sentire il bisogno di popolarlo di significati. In questa incapacità di accettare il silenzio del mondo, in questa compulsiva produzione di senso e di sacro, si misura tutta la nostra grandezza e la nostra tragedia di esseri sospesi tra terra e cielo, mai completamente a casa in nessun luogo.
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