IN HOC SIGNO REBELLOR
Il professore di Storia e Filosofia – la materia che dovrebbe insegnare il dubbio, l’analisi, la libertà del pensiero – ha reagito come il parroco di provincia del secolo scorso: l’ha rimproverata, l’ha umiliata davanti ai compagni e le ha intimato di coprire quel simbolo “per rispetto”. Ma rispetto di chi, di cosa? Della sua sensibilità personale? Del conformismo che ancora oggi confonde la religione con l’identità nazionale? Della tradizione che si fa scudo della parola “valori” per nascondere la paura del cambiamento?
La ragazza, sorpresa, ha risposto di essere satanista. Non è chiaro se lo pensasse davvero o se fosse solo un riflesso, un atto di difesa. Poco importa. Il dato politico, sociale e culturale è un altro: il professore è stato sospeso. Tre giorni. Non lei, lui.
E qui si apre la parabola perfetta di un Paese che non sa cosa sia la laicità, che la invoca a convenienza, che la dimentica quando dà fastidio. Perché il crocifisso appeso alle pareti delle aule – simbolo che lo Stato, almeno sulla carta, dovrebbe lasciare fuori dalle classi – è difeso in nome della tradizione, della cultura, addirittura della “civiltà”. Ma se quello stesso crocifisso, da simbolo sacro e intoccabile, viene trasformato in simbolo di libertà personale, reinterpretato o ribaltato, ecco che si grida allo scandalo, si scomoda il rispetto, si invoca l’ordine.
È l’Italia dei doppi standard: dove i simboli religiosi entrano nella scuola senza che nessuno si ponga il problema della neutralità dello Stato, ma dove il singolo cittadino che li manipola viene guardato come un eretico. È l’Italia in cui la laicità funziona come il Wi-Fi di certe case popolari: segnale debole, connessione ballerina, disponibile solo quando non disturba.
Eppure la scuola non dovrebbe essere questo. Non dovrebbe essere il luogo della disciplina cieca, ma quello del confronto. Non un altare del silenzio, ma un laboratorio del pensiero critico. Dove “rispetto” non significa “taci”, ma “ascolta e discuti”.
Le nuove generazioni lo hanno capito meglio degli adulti: i ragazzi non accettano più di essere addestrati a ripetere formule, pretendono di interrogare il mondo, di provocarlo, di riscriverne i simboli. Lo fanno con i linguaggi della rete, con i corpi, con i gesti, anche piccoli. Quel crocifisso capovolto era esattamente questo: un gesto minuscolo e insieme enorme, capace di mettere a nudo tutte le ipocrisie di un sistema.
Il paradosso è che il professore, con la sua censura, ha regalato alla studentessa la lezione di filosofia più memorabile della sua carriera. Non su Hegel o Kant, ma sulla vita reale: ha mostrato in diretta cosa accade quando l’autorità scivola nell’autoritarismo, quando il rispetto per un simbolo pesa più del rispetto per la persona, quando la scuola dimentica che il suo compito non è insegnare a obbedire, ma insegnare a essere liberi.
È questa la tragedia italiana: confondere il dogma con l’identità, la tradizione con la cultura, l’ordine con il rispetto. In quell’aula, quel giorno, il crocifisso capovolto era una domanda. E la scuola aveva l’occasione di dare una risposta alta, adulta, dialogante. Ha scelto invece la repressione, che è la scorciatoia dei deboli.
E allora la scena resta scolpita come una fotografia di questo Paese: il professore sospeso, i colleghi divisi tra chi difende l’ordine e chi invoca la libertà, i giornali pronti a trasformare tutto in una rissa ideologica, e una ragazza seduta a un banco, con al collo un simbolo ribaltato che ci ricorda quanto poco sappiamo reggere il peso della libertà.
Perché, alla fine, l’unica vera filosofa in quell’aula non stava dietro la cattedra. Stava tra i banchi, zitta, con un crocifisso al collo.
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