IPOCRISIA E CORAGGIO
Settembre 2025. Dal Mediterraneo parte la Global Sumud Flotilla, con 250 tonnellate di cibo, medicine e attrezzature per due milioni di palestinesi che da anni sopravvivono sotto assedio. Una di quelle missioni che dovrebbero mettere tutti d’accordo: civili ridotti alla fame, ospedali al collasso, bambini che muoiono per mancanza di antibiotici. Dovrebbero.
Invece no. Appena salgono a bordo alcuni attivisti LGBTQ+ con bandiere arcobaleno, scatta il corto circuito. Un coordinatore molla tutto perché l’“agenda woke” non si sposa con i valori musulmani. Greta Thunberg, che fino a ieri arringava folle contro il capitalismo fossile, si smarca pure lei: troppo complicato, meglio postare una foto col cartello “Stop Oil” e via. Risultato: la flottiglia diventa il set di un reality, con litigi, dimissioni e scomuniche interne, ancora prima di affrontare le cannonate israeliane.
E qui arriva il grande spettacolo del moralismo da tastiera. I commentatori filo-Israele, i conservatori in cerca di like, gli influencer del nulla si buttano sulla notizia come squali sul sangue. “Queers for Palestine? Hamas vi butterebbe dai tetti!”. Meme, battutine, indignazioni prêt-à-porter. Tutti esperti improvvisati di diritto islamico, tutti difensori last minute delle minoranze sessuali. Ma solo quando serve per squalificare gli avversari.
Sì, perché la verità scomoda è che a Gaza essere queer significa rischiare botte, carcere, torture, a volte la morte. Hamas applica leggi da Medioevo, Amnesty e Human Rights Watch hanno interi dossier che lo provano. E i palestinesi queer spesso scappano in Israele, che per ironia della storia è l’unico paese della regione a garantire diritti LGBTQ+. Insomma, il paradosso è reale.
Ma il punto è un altro: che cosa fanno questi paladini della coerenza, a parte alzare il sopracciglio e twittare battute? Nulla. Non hanno mai caricato un pacco di antibiotici su una nave, non hanno mai rischiato un fermo armato, non hanno mai nemmeno pensato di sporcarsi le mani con la realtà. Preferiscono il ruolo del professorino: seduti al caldo, col cappuccino in mano, spiegano a chi parte per Gaza che “non è coerente”.
Gli attivisti LGBTQ+ che salgono sulla flottiglia, invece, sanno benissimo che Hamas li disprezza. Non partono per legittimarlo, ma per aiutare la gente comune che muore di fame. Non è ipocrisia, è la scelta più difficile: distinguere tra un popolo e i suoi carcerieri, tra i civili e chi li opprime. Non per Hamas ma nonostante Hamas. È un salto nel vuoto, pieno di contraddizioni, certo. Ma almeno è un salto.
Alla fine, rimane la differenza che nessuno vuole guardare in faccia: c’è chi rischia la pelle per portare aiuti, e c’è chi rischia al massimo un crampo al pollice per digitare “ipocriti” su X. I primi partono, i secondi giudicano. I primi mettono il corpo, i secondi le chiacchiere.
E forse la vera incoerenza non è quella degli attivisti che s’imbarcano, ma quella di un mondo che pontifica sulle contraddizioni… mentre a Gaza manca l’acqua potabile.
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