L'ORDINE DEI FATTORI
Il conflitto israelo-palestinese, una bella matassa da dipanare, dove ogni tentativo di analisi equilibrata finisce inevitabilmente per scontentare tutti e dove la complessità della situazione diventa spesso una comoda scusa per evitare di chiamare le cose con il loro nome, come se la sofferenza civile diventasse più tollerabile quando la si inquadra in un contesto geopolitico più ampio. Certo, possiamo parlare all'infinito delle "molteplici sfumature" e delle "narrazioni complesse", ma alla fine dei conti quello che vediamo sui nostri schermi sono bambini morti sotto le macerie e famiglie distrutte, dettagli che tendono a rendere piuttosto accademiche le discussioni sui "livelli di lettura" del conflitto, non trovate? E poi c'è questa curiosa tendenza a trattare la questione come se fosse un problema simmetrico, dove da una parte abbiamo una delle forze militari più avanzate al mondo e dall'altra una popolazione in gran parte priva di difese adeguate, ma evidentemente parlare di sproporzione è considerato di cattivo gusto nei salotti diplomatici internazionali. La narrazione della "minaccia esistenziale" rappresentata da Hamas funziona benissimo per giustificare qualsiasi escalation militare, perché d'altronde chi oserebbe mettere in discussione il diritto di uno Stato a difendersi, anche quando questa difesa assume contorni che ricordano più una punizione collettiva che un'operazione chirurgica contro obiettivi specifici, ma naturalmente queste sono solo impressioni di osservatori superficiali che non comprendono le sottigliezze della strategia militare moderna. Il richiamo costante alla Shoah come giustificazione morale per qualsiasi azione presente è particolarmente affascinante nella sua perversa logica circolare: le vittime di ieri che diventano i carnefici di oggi mantengono comunque l'immunità morale conferita dalla loro storia di sofferenza, come se il dolore patito conferisse una sorta di licenza perpetua per infliggerne altro, una matematica etica che francamente fatica a tornare ma che evidentemente convince molti. E mentre i governi occidentali si contorcono in dichiarazioni diplomatiche che condannano la violenza "da tutte le parti" con la stessa convinzione con cui si augura buona giornata al vicino antipatico, la realtà sul terreno continua a scrivere una storia molto meno ambigua di quella che vorremmo raccontarci, dove i morti hanno nazionalità ben precise e le responsabilità non sono affatto equamente distribuite, ma dire questo ad alta voce significa essere tacciati di antisemitismo, quella comoda etichetta che zittisce ogni critica legittima e trasforma ogni osservazione sui fatti in un attacco all'esistenza stessa del popolo ebraico. La vera tragedia di tutto questo circo è che mentre intellettuali e politici si dilettano in esercizi di equilibrismo semantico per evitare di prendere posizioni troppo nette, la storia si sta scrivendo comunque, giorno dopo giorno, bombardamento dopo bombardamento, e quando i nostri nipoti studieranno questo periodo non avranno bisogno di complesse analisi geopolitiche per capire chi stava uccidendo chi e con quali mezzi, perché i numeri parlano da soli e i morti non hanno bisogno di interpreti, ma forse è proprio questo che fa più paura: l'idea che un giorno non ci saranno più sofismi sufficienti a nascondere la semplice, brutale realtà dei fatti.
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