TARLI
L’idea che l’intolleranza possa diventare il fondamento di una forza politica è tanto grottesca quanto pericolosa: è come costruire una casa con mattoni di sabbia e illudersi che resista alla pioggia. Certo, come esseri umani proviamo emozioni contraddittorie – rabbia, rancore, paura del diverso – ma scambiare lo sfogo emotivo per un progetto di governo equivale a confondere una litigata al bar con filosofia politica. La Costituzione non è stata scritta per dare dignità ai nostri capricci più meschini, ma per garantire che la convivenza civile non degeneri in rissa permanente tra fazioni che si considerano nemici irriducibili.
L’intolleranza in politica è come un tarlo: non arriva mai con la forza di un uragano, ma con la pazienza di chi sa rosicchiare lentamente. All’inizio sembra innocua, quasi invisibile: un buchino nel legno, una crepa che si ignora perché “tanto è piccola”. Poi, senza che ce ne accorgiamo, il tarlo mangia, scava, indebolisce. E quando finalmente notiamo il danno, la trave portante della casa – la Costituzione – è già svuotata dall’interno, pronta a crollare al primo urto.
Il paradosso è questo: una società democratica, per principio, deve tollerare anche ciò che non le piace. Ma cosa succede quando l’oggetto della tolleranza è proprio un movimento che si nutre della libertà per distruggerla? È come invitare a cena il tarlo e chiedergli di non toccare i mobili: una fiducia mal riposta che finisce sempre nello stesso modo, con segatura sul pavimento e un salotto in rovina.
Ed è qui che emerge il paradosso pratico della democrazia contemporanea: quando dovremmo intervenire contro questi movimenti? Se la magistratura applicasse davvero le leggi esistenti – come il divieto costituzionale di riorganizzazione del partito fascista – il problema sarebbe chiuso in partenza. Ma la realtà è più insidiosa: spesso i tribunali non muovono un dito quando i movimenti sono marginali, trattandoli come fenomeni sottosoglia. Nel frattempo, la politica commette l’errore opposto: li sottovaluta, li usa per calcoli elettorali a breve termine, li spaccia per folclore. Così il tarlo trova la porta socchiusa, entra senza far rumore e inizia a rosicchiare le travi dall’interno. Ci si accorge del danno solo quando ormai la struttura democratica scricchiola.
È la lezione tragica del Novecento che continuiamo a ignorare: Hitler fu tollerato, sottovalutato e persino utilizzato quando era un personaggio marginale nelle birrerie di Monaco. Solo quando aveva già conquistato il potere legale – e con esso gli strumenti per demolire la democrazia dall’interno – fu combattuto seriamente. Ma allora il tarlo aveva già scavato gallerie profonde, e l’edificio era compromesso. La storia insegna: è molto più facile fermare un movimento antidemocratico agli inizi, ma paradossalmente è proprio allora che sembra meno urgente.
Trasformare l’intolleranza in programma politico significa chiedere alle regole democratiche di legittimare chi vuole bruciare il campo da gioco stesso. È il celebre paradosso di Popper nella sua forma più cruda: se una società tollerante tollera senza limiti l’intolleranza, quest’ultima si espanderà come un’infestazione. Alla fine ti ritrovi a brindare alla libertà con un bicchiere vuoto, mentre attorno regna il silenzio imposto.
L’intolleranza politica, quella ridotta a distinzione amico-nemico, trasforma la polis in un ring senza regole. Non c’è più confronto, né compromesso: conta solo il KO tecnico dell’avversario, la sua eliminazione simbolica o fisica dal dibattito pubblico. Non costruisce nulla di duraturo: divide, marginalizza, criminalizza, lasciando dietro di sé soltanto segatura politica – macerie morali e istituzionali.
Ecco perché l’intolleranza organizzata è il cavallo di Troia dell’autoritarismo. All’inizio si presenta col sorriso della libertà, rivendica il diritto democratico di esistere, usa il linguaggio dei diritti per conquistare spazio. Ma in realtà lavora come il tarlo: scava invisibile, si rafforza nell’ombra e, quando strappa la maschera, la trave portante della democrazia è già indebolita.
La vera tragedia è che questo processo non avviene mai con un colpo di stato spettacolare. No, avanza per gradi: prima lo sdoganamento dell’insulto, poi la discriminazione amministrativa, infine la persecuzione. Ogni passaggio appare “ragionevole” rispetto al precedente, ogni escalation è giustificata dall’emergenza di turno. Così il tarlo avanza indisturbato, rosicchiando senza fretta la Costituzione.
Ecco perché non basta dirsi genericamente contrari. Bisogna smontare intellettualmente, denunciare pubblicamente, ridicolizzare senza pietà ogni tentativo di spacciare l’intolleranza per proposta politica legittima. Prima che diventi colonia, prima che trasformi la democrazia in un mobile tarlato, bello all’apparenza ma pronto a crollare al minimo urto.
La democrazia non è solo un insieme di regole, ma una scommessa continua: che gli esseri umani, con le loro differenze e i loro conflitti, possano comunque convivere. L’intolleranza organizzata è l’esatto contrario: è la resa di fronte a quella scommessa, il fallimento dell’intelligenza umana. È il tarlo che si nutre della libertà fino a ridurla in polvere.
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