QUINTO, NON UCCIDERE*
La pena di morte è un relitto barbarico che certi governi continuano a sventolare come simbolo di giustizia, ma ammazzare in nome dello Stato non cancella il sangue versato, lo moltiplica, e ci abbassa al livello dei criminali che fingiamo di punire. È un'assurdità perché nessuna vita è un'equazione a somma zero e nessuna coscienza è priva di possibilità di cambiamento, ma decretarne la fine è come dire che l'universo è già chiuso, finito, senza spiragli di redenzione. È un abominio perché il «non uccidere» non ha note a piè di pagina o un asterisco per giudici e boia, e la morale non è vendetta travestita da legge, ma compassione e responsabilità, qualità che evidentemente non fanno audience. È una truffa perché a morire sono sempre i poveri, i marginali, le minoranze, mai i potenti che rubano miliardi e se la cavano brindando a champagne, quindi più che giustizia è una lotteria classista e razzista che rafforza le disuguaglianze. È teatro puro, leader che si travestono da sceriffi inflessibili per guadagnare voti a colpi di patiboli, spendendo fortune in processi ed esecuzioni che costano più di scuole, ospedali e programmi di prevenzione messi insieme, ma evidentemente educare non fa notizia, mentre il boia sì. E come se non bastasse c'è l'errore giudiziario, che non è un'eccezione ma una certezza statistica, e ogni volta che lo Stato uccide rischia di commettere un omicidio mascherato da giustizia, una roulette russa morale che presuppone l'infallibilità umana, cioè la più arrogante delle illusioni. Particolarmente grottesca è la contraddizione di certa politica che si professa pro-life, addirittura riconoscendo diritti dal concepimento, negando l'eutanasia e poi dichiarandosi favorevole alla pena di morte, come se la sacralità della vita avesse una data di scadenza o dipendesse dal codice penale, una schizofrenia morale che produce questa liturgia della doppia morale: manifestazioni per salvare embrioni di poche cellule e contemporaneamente cortei per accelerare le esecuzioni, perché la vita è sacra, ma solo fino a quando non disturba l'ordine costituito o non offre dividendi elettorali, il trionfo dell'ipocrisia travestita da coerenza ideologica dove si difende la vita potenziale con lo stesso ardore con cui si distrugge quella reale. Alla fine resta il messaggio che passa ai giovani: uccidere va bene se lo fai con una toga o un'iniezione letale, ed è questo il capolavoro della contraddizione, insegnare la violenza con il sigillo della legge, una società che uccide per insegnare che uccidere è sbagliato e che ha perso la bussola morale, una civiltà che risolve i problemi eliminando le persone e che ha rinunciato alla propria umanità. In sostanza la pena di morte è inutile, ipocrita, costosa e profondamente ingiusta, e chi la difende non è un amante della giustizia ma un boia con la coscienza lustrata a retorica, e ridiamoci pure su: è come curare il mal di testa con la ghigliottina, spettacolare forse, ma decisamente sopra le righe e soprattutto inutile, se non a renderci tutti un po' più morti dentro. E alla fine ci meravigliamo se il mondo è violento, quando lo Stato fa il primo della classe in omicidi premeditati, perché la pena di morte non è solo moralmente sbagliata ma è il simbolo più evidente del fallimento della nostra immaginazione civile, dell'incapacità di concepire soluzioni che vadano oltre l'istinto primitivo di eliminare ciò che ci disturba, e questo, forse, è il crimine più grave di tutti.
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