COMA DEMOCRATICO



Quando la politica smette di discutere e comincia ad accusare, la democrazia non scompare all’improvviso: entra in coma. Continua a respirare, ma per automatismo. Le sue istituzioni restano formalmente in piedi, ma svuotate di significato. È un sistema che funziona solo in apparenza, privo della linfa vitale del pluralismo.

Oggi in Italia si assiste a una progressiva ridefinizione del linguaggio politico. Non è più confronto, ma delegittimazione. L’opposizione non è interlocutore, ma bersaglio. Quando un Presidente del Consiglio arriva a definire “terroristiche” le posizioni di chi critica il governo, non si tratta di un eccesso retorico: è un salto di paradigma. Si sostituisce la dialettica con la criminalizzazione. Il dissenso diventa minaccia, e l’ordine pubblico prende il posto della libertà politica.

Giorgia Meloni rappresenta la piena istituzionalizzazione di una cultura politica che, per decenni, si era mantenuta ai margini. Non è nostalgia del passato, ma la sua evoluzione. L’autoritarismo non si manifesta più con i simboli del ventennio: si esprime con la gestione del potere, con la retorica del “noi contro loro”, con la personalizzazione estrema della leadership.

La trasformazione più profonda non è nei decreti, ma nel modo in cui si costruisce consenso. Il leader diventa la nazione, la critica un atto di slealtà. Si confonde la legittimità elettorale con l’infallibilità morale. E così, un governo che salva sé stesso dai processi attraverso l’immunità parlamentare, che difende ministri indagati come martiri del sistema, riesce a presentarsi come baluardo della legalità. È un cortocircuito logico che funziona solo in un contesto di assuefazione collettiva.

Una volta consolidato il potere, la strategia non è più difensiva ma offensiva. Chi critica diventa “nemico della patria”, chi manifesta è “strumento del disordine”. È la logica del potere che si sente intoccabile, perché ha sostituito la legittimazione democratica con quella emotiva.

Meloni si presenta come la custode dell’identità nazionale, ma interpreta la democrazia come una proprietà personale da amministrare. È un modello di leadership che si regge su un’idea distorta di consenso: non il risultato di un confronto libero, ma il prodotto della paura e della fedeltà.

In questo schema, l’avversario politico non è più un soggetto con cui negoziare regole comuni, ma un ostacolo da neutralizzare. È la logica autocratica travestita da orgoglio nazionale.

Ma il problema più profondo non è nel governo: è nella società che lo tollera.
L’Italia vive una forma di anestesia civile. L’indignazione è immediata e superficiale, confinata nei social network. La partecipazione politica è episodica, la memoria collettiva cortissima.

Così il potere trova terreno fertile: governa senza temere reazioni, consolida il proprio controllo grazie a un’opinione pubblica che ha smesso di pretendere trasparenza. In un contesto simile, l’autoritarismo non si impone: si insinua. Non serve la censura, basta la rassegnazione.

La democrazia italiana non è formalmente morta, ma sopravvive in uno stato vegetativo. Le sue istituzioni funzionano, ma senza spirito critico. Il voto rimane, ma si svuota di senso se viene esercitato in assenza di coscienza politica.

Il successo di Meloni, in fondo, non è solo politico: è culturale. Ha trasformato la paura in prudenza, la passività in buon senso, la rassegnazione in segno di maturità. Ha convinto un Paese che la stabilità valga più della libertà, e che chi contesta l’ordine costituito sia un pericolo per la nazione.

È qui che la democrazia entra davvero in coma: quando un popolo smette di considerarla un diritto, e comincia a vederla come un lusso.

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