DALLE VITE ALLE GITE
Il 12 ottobre 2025, durante il convegno dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, la ministra Roccella ha definito “gite” i viaggi ad Auschwitz. Una parola che, detta così, sembra piccola, quasi innocente. Eppure, nel contesto in cui è stata pronunciata, suona stonata come una risata in un funerale. “Gite”: come se si parlasse di una scampagnata, di un’escursione scolastica qualunque. E invece si parlava di Auschwitz — il luogo dove l’umanità ha toccato il fondo di se stessa.
Quella parola non è stata casuale. La ministra l’ha inserita in un discorso più ampio, sostenendo che quei viaggi servirebbero soprattutto a rappresentare l’antisemitismo come un fenomeno esclusivamente fascista, confinato nel passato, mentre oggi l’odio antiebraico si manifesterebbe altrove, nelle piazze pro-Palestina o nelle università. Una tesi discutibile ma non priva di un nucleo di verità: l’antisemitismo non è morto con il nazifascismo e, sotto nuove bandiere, continua a sopravvivere. Tuttavia, il problema non sta tanto nel contenuto dell’osservazione quanto nel modo in cui è stata costruita: utilizzando Auschwitz come sfondo polemico, come esempio da piegare alle esigenze di un ragionamento politico.
Auschwitz non è un argomento. È un cimitero senza lapidi, un altare di silenzio. È il luogo in cui la disumanizzazione ha assunto la forma di sistema, dove uomini, donne e bambini — ebrei, Rom, omosessuali, disabili, oppositori politici — sono stati ridotti a numeri e cenere. Chiamare tutto questo una “gita” significa rendere leggero l’insopportabile, banalizzare la memoria, ridurre un pellegrinaggio del dolore a un atto di turismo morale.
La risposta di Liliana Segre, deportata a tredici anni e sopravvissuta all’inferno, è stata semplice e devastante: “stento a credere”. Tre parole che racchiudono il peso di chi ha visto e non dimentica, di chi porta sul braccio un numero che non si cancella. È lo stupore ferito di chi assiste, ancora una volta, alla leggerezza con cui il linguaggio istituzionale riesce a scivolare sull’orlo dell’osceno.
Il Memoriale della Shoah ha chiesto formalmente alla ministra di presentarsi in Senato per chiarire le sue affermazioni. Non per forma, ma per sostanza: perché quando si parla di Auschwitz, le parole non sono un dettaglio ma la misura del rispetto. Il successivo tentativo di correzione, con cui la ministra ha definito quei viaggi “fondamentali”, non ha cancellato il danno. Perché le parole, una volta pronunciate, restano. E rivelano più di quanto si voglia ammettere.
Non è stato un lapsus. È una mentalità: quella che considera la memoria come strumento, come materiale retorico da piegare alle esigenze del presente. È l’idea che l’orrore del passato possa essere evocato per sostenere un argomento politico, come se il dolore potesse diventare accessorio di una tesi. Ma Auschwitz non si usa: si ricorda, si ascolta, si rispetta.
L’errore più grave, forse, sta nel dimenticare che la Shoah non appartiene a nessuno. Non a un partito, non a una fazione, non a un’ideologia. È un patrimonio dell’umanità, e il suo insegnamento attraversa i confini del tempo e della politica. Ci ricorda che la disumanizzazione non è esclusiva di un’epoca o di un regime, ma una possibilità sempre aperta, pronta a riaffacciarsi ogni volta che il linguaggio perde peso e la coscienza perde memoria.
La memoria della Shoah non è una materia di studio da aggiornare, né un argomento da talk show. È una ferita che chiede silenzio, non applausi. Chi parla di Auschwitz dovrebbe farlo come chi entra in un luogo sacro: a voce bassa, con rispetto. Forse sarebbe utile che chi si esprime con tanta disinvoltura su questi temi visitasse davvero quei luoghi — non come rappresentante istituzionale, ma come essere umano. In silenzio, senza telecamere, per ascoltare ciò che lì non smette di gridare.
Perché da Auschwitz non si esce come si entra: ci si entra da vivi, e se ne esce cambiati. E se oggi c’è chi riesce a trasformare quel luogo di morte in una parola leggera, allora significa che abbiamo smarrito qualcosa di essenziale: la consapevolezza che la memoria non è un esercizio di stile, ma un dovere morale.
E così, da “Vite” a “Gite”, il passo può essere terribilmente breve. Basta una parola per spostare la memoria dal cuore alla superficie, per trasformare il ricordo in immagine, l’orrore in opinione. Ma la memoria non è un’opinione. È la linea sottile che separa la civiltà dalla barbarie. Ed è proprio su quella linea che dovremmo tornare a camminare — in silenzio, con rispetto, e con la consapevolezza che ogni parola pesa.
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