HOLYWEEN


È una sera di fine ottobre. L’aria è frizzante, le foglie scricchiolano sotto i piedi, e sul davanzale di una casa brilla una zucca ghignante. Bambini mascherati da scheletri corrono gridando “dolcetto o scherzetto”. Ti fermi un attimo a guardarli e ti chiedi: è solo un gioco o dietro quel sorriso arancione si nasconde qualcosa di più antico?

Perché Halloween, diciamocelo, non è solo una festa importata dagli Stati Uniti. È un groviglio di riti celtici, reinterpretazioni cristiane e consumismo moderno. Tutto comincia con Samhain, il capodanno dei Celti, quando il velo tra vivi e morti si assottigliava. Si accendevano falò, ci si travestiva per confondere gli spiriti, si lasciava del cibo per placarli. Poi arrivò la Chiesa: nel IX secolo spostò Ognissanti al 1° novembre, trasformando la notte pagana nella vigilia cristiana, All Hallows’ Eve — da cui Halloween. Ma i vecchi fantasmi resistettero e riaffiorarono in America, dove la zucca sostituì la rapa e la festa divenne un carnevale di zucchero e maschere.

La Chiesa non ha mai condannato ufficialmente Halloween. Nel 2002 la Congregazione per il Culto Divino si limitò a un gentile invito: “non oscurate Ognissanti”. Ma molti sacerdoti e teologi, come Padre Livio Fanzaga di Radio Maria, vedono in Halloween la “festa di Satana”, un varco spirituale pericoloso mascherato da gioco innocente.

E così nasce Holyween: bambini vestiti da santi, luci accese invece di zucche, preghiere al posto degli scherzetti. Un modo per “santificare” la notte del 31 ottobre. Ma c’è un piccolo problema: se è macabro vestire i bambini da zombie, quanto lo è travestirli da martiri decapitati, scuoiati o arrostiti sulla graticola? Il martirologio cristiano è pieno di immagini che farebbero impallidire qualsiasi film horror. San Lorenzo sulla graticola, Santa Lucia con i propri occhi sul piattino, San Sebastiano trafitto come un puntaspilli… eppure questi sono esempi di santità.

La differenza, si dice, è nel significato: il martirio è “violenza santa”, non spettacolo diabolico. Ma prova a spiegarlo a un bambino di sei anni vestito da San Sebastiano: il confine tra fede e splatter, visto da fuori, è sottile. Forse più sottile di quanto i difensori di Holyween vorrebbero ammettere.

Il cristianesimo ha sempre avuto un rapporto ambiguo con la morte. Da un lato la condanna, dall’altro la glorifica quando è sofferenza redenta. Le chiese sono piene di santi mutilati, crocifissi, trafitti, ma nessuno li considera “pericolosi per lo spirito”. È un macabro benedetto, un’estetica del dolore che educa e consola.

E allora, quando si demonizza Halloween perché “espone i bambini al male”, bisognerebbe ricordare che l’iconografia cristiana non è esattamente un catalogo di fiori e colombe. Forse, più che di Satana, qui parliamo di dissonanza cognitiva: l’orrore ci spaventa solo quando non ha l’imprimatur ecclesiastico.

Certo, Halloween oggi è soprattutto un affare commerciale. Zucche di plastica, caramelle industriali, costumi prodotti in serie. Ma sostituire questo con un mercato di costumi da santi non cambia la sostanza: il consumismo rimane, solo con etichetta “parrocchiale”.

Forse la domanda più onesta è un’altra: a cosa serve oggi spaventare i bambini? Dai falò dei Celti alle sfilate di Holyween, l’uomo ha sempre avuto bisogno di ritualizzare la paura, di giocare con la morte per renderla meno spaventosa. È lo stesso fuoco di Samhain che ancora brucia — non nelle zucche o nelle chiese, ma nel nostro bisogno di dare forma all’ignoto.

E alla fine, passeggiando tra le luci arancioni e le risate dei bambini, ti resta un dubbio semplice ma essenziale: stiamo davvero proteggendo qualcuno o solo proiettando le nostre paure di adulti su un gioco che i bambini capiscono meglio di noi? Loro sanno che il costume si toglie, che il mostro non è reale. Noi, forse, no.

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