IL PARADOSSO NORDICO


In Italia parlare di educazione sessuale è come chiedere un negroni in Vaticano: si può fare, ma poi devi confessarti. È un tema che scatena guerre di religione dove non si cerca una soluzione, ma una ragione da rivendicare. Non si parla di ragazzi, ma di chi ha il diritto morale di spiegare ai ragazzi cos’è “giusto”. E così, mentre adulti e politici si scannano su chi debba dire cosa, gli adolescenti — i diretti interessati — restano sullo sfondo, muti come comparse di un dramma che li riguarda ma che non li contempla.

La narrazione ufficiale è comoda: nei paesi nordici si parla di sesso fin dalle elementari, quindi lì sono liberi, consapevoli e felici; noi invece siamo rimasti all’ora di religione e al rosario della nonna. Il problema è che i dati rovinano sempre le favole: in Danimarca la clamidia dilaga, in Svezia e Finlandia pure, mentre in Italia sembra quasi sparita. Ma no, non siamo più virtuosi — semplicemente ci vergogniamo troppo per farci testare. Da noi l’educazione sanitaria finisce dove comincia il pudore, e il pudore comincia subito.

Nei paesi scandinavi il test per le malattie sessualmente trasmesse si fa come il tagliando dell’auto: gratuito, anonimo, veloce. Da noi devi prima superare l’imbarazzo, poi il giudizio, poi l’attesa infinita del laboratorio. Così i numeri restano bassi, ma solo perché la gente preferisce non sapere. È la nostra specialità nazionale: l’ignoranza come forma di decoro.

Certo, si può dire che nei paesi del Nord si trova di più perché si cerca di più. Ma c’è anche un paradosso che nessuno ama discutere: dopo cinquant’anni di lezioni, opuscoli e campagne, i comportamenti a rischio restano alti. Forse perché sapere non è lo stesso che capire, e capire non è lo stesso che fare. A diciott’anni, con un gin tonic in mano e un’attrazione improvvisa davanti, la teoria del preservativo cede facilmente il passo alla pratica del “vabbè dai, solo un attimo”.

Poi c’è l’altro paradosso, ancora più scomodo: nei paesi dove la parità di genere è più avanzata, le denunce di molestie e violenze sessuali sono più numerose. Non perché si aggredisca di più, ma perché si parla di più. E questo è un segno di civiltà, non di barbarie. Solo che da noi un dato del genere verrebbe usato per dire “vedete, troppa libertà porta al caos”. È il vizio italiano di usare le statistiche come clava per confermare i pregiudizi.

Nel frattempo, i giovani italiani si ammalano di più. HIV, clamidia, gonorrea, sifilide: nomi che sembravano roba da film anni Ottanta tornano nei referti dei consultori. E la colpa non è della “decadenza morale”, ma del vuoto educativo. Le famiglie non ne parlano perché si imbarazzano, le scuole non lo fanno per paura di proteste, e lo Stato si limita a raccomandare “l’astinenza responsabile” — che è come consigliare di non avere fame per evitare di ingrassare.

La destra invoca il consenso dei genitori per ogni iniziativa “sensibile”, paralizzando qualsiasi tentativo di informazione. La sinistra, dal canto suo, brandisce l’educazione sessuale come simbolo di progresso, trasformandola in una bandiera più che in una politica. Entrambe le parti, in realtà, stanno recitando lo stesso copione: non proteggere i ragazzi, ma difendere un’identità. E in mezzo, i giovani restano soli a imparare da Internet che il sesso è uno sport estremo senza regole né conseguenze.

Eppure, non servirebbe un miracolo: basterebbe un piano serio, consultori accessibili, medici preparati, test gratuiti, campagne continue e un linguaggio adulto. Il sesso non è né un tabù né un passatempo. È un fatto umano, complesso, che richiede responsabilità e piacere in dosi uguali. Ma dire questa cosa in Italia è già un atto rivoluzionario, perché qui o sei moralista o sei libertino. Le sfumature non fanno share.

Il vero scandalo non è che non abbiamo l’educazione sessuale obbligatoria: è che nel 2025 non riusciamo nemmeno a concordare sul minimo indispensabile, ovvero che i ragazzi dovrebbero sapere come funziona il loro corpo e come proteggerlo. Non serve essere progressisti o conservatori per capirlo, basta avere buon senso. Ma il buon senso, in Italia, è sempre sospetto: o puzza di ideologia, o di eresia.

Alla fine, resta un’amara verità: non è ignoranza, è abbandono. È il disinteresse travestito da principio morale, il cinismo mascherato da battaglia culturale. E mentre gli adulti litigano su “gender”, “famiglia naturale” e “valori tradizionali”, i ragazzi si ammalano, si confondono, si fanno male. E noi, invece di aiutarli, continuiamo a discutere su chi ha ragione.
Che poi è la cosa che in Italia sappiamo fare meglio: avere ragione anche quando abbiamo torto.

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