IL TEMPO PER ESSERE

Le cellule si uniscono, si separano, si trasformano: il corpo, come l’universo, è un processo continuo. Nulla resta immobile; ogni forma è un momento transitorio di un flusso che non ha origine né fine. Questo principio biologico riflette una legge più ampia: la realtà non è una collezione di oggetti statici, ma una rete di relazioni in perenne trasformazione.

La fisica quantistica ha reso questa intuizione quasi tangibile. La materia non è che vibrazione, una danza di probabilità in cui ciò che chiamiamo “particella” è solo la manifestazione locale di un campo. Eppure, in questo universo in cui tutto vibra, noi cerchiamo stabilità. Abbiamo inventato numeri, sistemi di misura, coordinate. Uno più uno fa due, ci dicono, ma questo “due” è un accordo simbolico, una convenzione mentale. I numeri, come le parole, sono strumenti che riducono l’infinito a ciò che la coscienza può contenere.

Dietro la necessità di misurare e classificare si nasconde un bisogno più profondo: dare continuità all’esperienza del sé. La mente, per non smarrirsi nel flusso incessante del cambiamento, costruisce cornici temporali, storie, identità. Ma il tempo stesso è parte di questa costruzione. La fisica moderna ha dimostrato che non esiste un “tempo assoluto”: esso si dilata o si contrae a seconda della velocità e della gravità, e non scorre uguale per tutti gli osservatori. Einstein ci ha insegnato che passato, presente e futuro coesistono in un unico blocco spazio-temporale.

Se tutto è simultaneo, da dove nasce la nostra sensazione di “adesso”?
La risposta viene dalle neuroscienze: il cervello non registra il tempo, lo costruisce. Integra stimoli che arrivano a velocità diverse, li sincronizza e genera un “presente percepito”, un’illusione di continuità. L’“adesso” non è un punto nel tempo, ma una finestra di integrazione, un artificio evolutivo che consente alla coscienza di coordinare le proprie azioni.

Ciò significa che non viviamo nel tempo, ma attraverso il tempo — come onde che attraversano un campo. Ogni tentativo di fissarlo in istanti discreti, di fermarlo, tradisce la sua natura continua. Anche la coscienza, in fondo, è un fenomeno dissipativo: non una sostanza, ma un processo che si mantiene finché l’energia scorre e l’informazione viene elaborata. Quando il flusso si interrompe, il sé svanisce, come una fiamma che si spegne non perché distrutta, ma perché priva di combustibile.

Riconoscere la propria natura processuale significa smettere di cercare una forma definitiva del sé. Significa accettare che la coscienza è movimento, relazione, divenire. E che ciò che chiamiamo “io” non è un punto fisso nel tempo, ma la traccia temporanea di un’interazione continua tra corpo, ambiente e memoria.

La termodinamica descrive questo stato meglio di qualsiasi metafora spirituale: l’entropia cresce, ma nel disordine emergono isole di ordine temporaneo. Noi siamo una di esse — strutture che mantengono la propria identità non opponendosi al cambiamento, ma attraversandolo.

Solo quando la coscienza accetta questa condizione — di essere flusso e non forma, relazione e non sostanza — può oltrepassare i propri confini. Allora il tempo non appare più come una linea che ci trascina, ma come una dimensione dell’essere che ci attraversa. In quell’esperienza, la distinzione tra osservatore e osservato si dissolve: resta soltanto la consapevolezza pura del divenire, il respiro stesso della realtà che prende coscienza di sé.

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