NO-BULLI PER LA PACE

C'è qualcosa di antico, quasi dimenticato, nel Nobel per la Pace assegnato quest'anno a María Corina Machado. In un tempo in cui i premi diventano spesso riflettori, e la pace una parola che si usa come slogan, la scelta del Comitato norvegese suona come un ritorno all'essenza: premiare chi rischia la vita, non chi occupa la scena.

Machado non è un capo di Stato, non è un generale, non è una diplomatica di lungo corso. È una donna che, nel Venezuela di Nicolás Maduro, ha osato dire di no. Lo ha fatto a mani nude, con un megafono, e con la determinazione di chi sa che ogni parola può costarle tutto. Non parla da un palco, ma da luoghi nascosti; non ha un esercito, ma una causa.

Eppure, come sempre accade quando un gesto morale spezza la retorica del potere, non sono mancati i sospetti. Qualcuno, da questa parte del mondo, ha liquidato il Nobel come "woke". Una parola abusata, che oggi serve a coprire tutto e il contrario di tutto. Ma non c'è nulla di ideologico in questa scelta. C'è piuttosto il riconoscimento di un coraggio civile, quello che da solo riesce a incrinare l'apparato di una dittatura.

Il premio a Machado è un atto politico, certo, ma non nel senso di parte. È politico come lo furono i Nobel a Lech Walesa o a Desmond Tutu, uomini e donne che non comandavano eserciti ma rappresentavano popoli. È la politica intesa nel suo significato più alto: la capacità di cambiare il corso della storia attraverso la forza morale.

In Venezuela, la pace non è una trattativa: è una forma di resistenza quotidiana. Machado ne è diventata il simbolo non perché cerchi visibilità, ma perché la visibilità la minaccia. E tuttavia continua, ostinata, a tenere viva una fiamma che molti credevano spenta. Perché la pace vera non si esibisce, non si ostenta, non si indossa come un distintivo. Nessuno dei grandi vincitori del Nobel si è dato da fare per vincerlo: Walesa non scioperava per Stoccolma, Mandela non resisteva a Robben Island per una medaglia, Tutu non predicava contro l'apartheid sperando in un riconoscimento. La pace non si costruisce per apparire, ma per necessità. È un lavoro sporco, ingrato, che raramente porta gloria. Chi la cerca davvero non ha tempo per i riflettori: ha da vivere, da resistere, da proteggere chi non ha più voce.

Qualcuno, negli Stati Uniti, ha ironizzato. Donald Trump, pare, si aspettava la statuetta per sé. Ma la pace non si costruisce con le conferenze stampa, né con i proclami autocelebrativi. E soprattutto, la pace imposta da chi possiede l'esercito più potente al mondo non può dirsi meritevole del Nobel. La forza militare può silenziare un conflitto, ma non costruisce ponti: li controlla. Il Nobel appartiene a chi la pace la costruisce dal basso, senza armature né portaerei, con la sola tenacia di chi crede che la libertà valga più della propria sicurezza.

Chiamare tutto questo "woke" è un modo elegante per non guardare in faccia la realtà: quella di una donna sola contro un regime che controlla tutto, e che pure non è riuscito a spegnerla. Machado non incarna un'ideologia, ma una possibilità: quella che la libertà, anche quando sembra perduta, può ancora trovare voce.

Il Nobel, questa volta, ricorda che la pace non è un privilegio dei potenti ma una scelta dei coraggiosi. E che a volte, per difenderla, bisogna saper dire no.

Un no che risuona più forte di mille accordi, e che restituisce dignità a una parola troppo spesso consumata: Pace.

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