FIGHETTI E SELVAGGI
C’è una scena che il Paese ha osservato con una tenerezza quasi mistica, un casolare sgangherato in Abruzzo, aria di bosco e libertà vintage, nessuna traccia di acqua corrente, fogna o elettricità. Tre bambini scalzi che corrono tra i rovi come comparse in un documentario sul buon selvaggio, e due genitori anglo-australiani convinti di aver riscoperto l’essenza pura della vita, la vera eredità di Thoreau in salsa peninsulare.
Il resto d’Italia – divisa tra indignazione civile e romanticismo da Instagram – improvvisamente si riscopre custode della libertà educativa. “Lasciateli vivere nel bosco!”, gridano in coro politici, opinionisti, influencer con tendenze bucoliche dell’ultimo minuto. Hashtag #famiglianelbosco, cuoricini, meme, melodrammi. Da Meloni che abbraccia i piccoli Robinson Crusoe a Salvini che difende la fiaba arcadica dagli “orribili giudici comunisti”, sembra di assistere a un talent show ambientato a metà tra Rousseau e Studio Aperto.
Ora fate un semplice esperimento mentale... cambiate il colore della pelle.
Tenete la baracca, tenete i funghi velenosi, la terra sotto le unghie, il bagno inesistente. Solo che i genitori non sono più bianchi, anglofoni e pieni di capitale culturale. Sono nigeriani, somali, rom, magari arrivati in Italia a bordo di un gommone o nati qui ma considerati comunque “estranei” al corpo sociale.
Immaginate il nuovo hashtag: #famiglianelbosco versione subsahariana.
Ecco fatto: il romanticismo evapora in un battito di ciglia.
I giornali titolerebbero “Degrado e inciviltà”, “Minori in pericolo”, “Campo abusivo da sgomberare immediatamente”. I commentatori che ieri benedicevano la libertà educativa oggi parlerebbero di “bomba igienico-sanitaria”. Salvini, dalla carezza alla ruspa, impiegherebbe circa tre minuti. E la favola si trasformerebbe in emergenza sociale.
Perché qui non stiamo discutendo di boschi, funghi o pedagogie alternative: stiamo parlando del filtro attraverso cui guardiamo le vite altrui. La stessa condizione materiale – tre bambini senza servizi, senza scuola, senza sicurezza – cambia radicalmente significato a seconda del colore di chi la abita.
Per i genitori occidentali diventa un esperimento filosofico, un ritorno alla purezza originaria. Una versione aggiornata del mito dell’autenticità che piace tanto a chi può permettersi la povertà come scelta estetica. Gli stessi bambini sporchi sono visti come “liberi”, “selvaggi”, quasi iniziati a una vita più vera.
Ma quando i protagonisti non sono bianchi, non sono istruiti, non hanno un buon accento inglese da esibire, allora la narrazione si capovolge.
La baracca diventa un reato, la povertà un segno di colpa, e i bambini non più piccoli figli della natura ma vittime da salvare dai propri genitori.
Questa non è una sottigliezza, è un doppio binario consolidato.
La povertà dei privilegiati è poesia; la povertà reale è patologia.
Gli uni possono “giocare ai poveri”, tanto sanno che a fine esperienza c’è un passaporto solido, un conto in banca e uno Stato che li considera cittadini. Gli altri nella povertà ci restano incastrati, e vengono trattati come un problema da eliminare, non come persone da ascoltare.
La sociologia ce lo dice da decenni, chi ha capitale culturale può reinterpretare anche il disagio come scelta. Chi non ce l’ha, subisce la definizione che gli altri gli impongono. E l’Italia ne è un laboratorio perfetto, quasi didattico nella sua trasparenza.
Accade nel turismo – il backpacker occidentale è un “viaggiatore”, il migrante che compie la stessa rotta è un “clandestino”.
Accade nell’educazione – la mamma alternativa bianca è una geniale pedagogista, la donna migrante nella stessa situazione è accusata di trascuratezza criminale.
Accade nel dibattito politico – i bambini da proteggere cambiano colore ogni settimana.
La questione dei diritti dei minori si dissolve come neve al sole, ciò che resta è un sistema che distribuisce dignità e comprensione in base al privilegio di nascita.
E allora la baracca nel bosco non è più un luogo fisico ma un test sociologico: serve a rivelare chi ha il privilegio di essere interpretato con benevolenza e chi viene giudicato a prescindere.
Si può ridere dell’ipocrisia, certo, perché è talmente evidente da sembrare caricaturale. Ma è una risata amara. Perché dietro c’è l’incapacità cronica – politica, culturale, mediatica – di applicare criteri uguali a tutti. Di vedere un bambino come un bambino, e non come il riflesso della nostra ansia identitaria.
E finché non chiamiamo questo bias per nome – razziale, culturale, di classe – continueremo a raccontarci la favola che siamo un Paese equo, mentre selezioniamo a monte chi può vivere “in modo alternativo” e chi deve vivere “in modo conforme”.
Il privilegio non è solo ciò che ti è concesso: è anche ciò che ti evita di essere punito per le stesse cose che vengono condannate negli altri.
Ed è per questo che la baracca nel bosco, più che un caso di cronaca, è uno specchio. Non ci piace quello che ci mostra, ma è esattamente il riflesso della società che abbiamo costruito.
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