GRUGNITI PRESIDENZIALI

È accaduto di nuovo. E il fatto che non stupisca più nessuno è, in fondo, il dettaglio che dovrebbe allarmarci. Sull’Air Force One, il 18 novembre 2025, Donald Trump ha rispolverato il numero del suo repertorio preferito: trasformare una domanda scomoda in un siparietto di disprezzo. Catherine Lucey di Bloomberg gli chiede perché non vuole pubblicare i documenti sul caso Epstein. Una domanda normale, come quelle che si fanno alle persone potenti quando c’è qualcosa che non torna.

Trump, che con il concetto di normalità intrattiene un rapporto simile a quello tra un vampiro e l’aglio, risponde “Quiet, quiet piggy.” Zitta, zitta maialina. Lo dice con quella miscela di fastidio e godimento che gli illumina sempre il volto quando può rimettere qualcuno “al suo posto”. E già che c’è, una volta atterrato, suggerisce che Bloomberg dovrebbe licenziarla. Perché quando non puoi cancellare la domanda, cancelli chi la fa.

Non è un incidente, è una prassi. Una liturgia. Un pezzo del suo culto personale. Da “horseface” a “dog” fino all’immancabile “fat pig”, Trump ha costruito un intero linguaggio politico basato sull’idea che per delegittimare una donna basti animalizzarla. È la sua grammatica primaria, togli l’umanità e togli la credibilità. Un trucco vecchio, ma sempre efficace, se non puoi controbattere nel merito, trasformi l’avversaria in caricatura.

Il punto più grottesco è la naturalezza. Trump dice “piggy” come un altro direbbe “buongiorno”. Nessun filtro, nessuna esitazione, nessuna coscienza del peso delle parole. E questa assenza di coscienza è esattamente ciò che i suoi sostenitori idolatrano: il mito dell’uomo che “dice quello che pensa”, che non si inchina al politicamente corretto, che confonde la brutalità con il coraggio.

Ma che cosa sta dicendo davvero? Che una giornalista che fa il suo lavoro merita di essere chiamata maialina? Che chiedere trasparenza su un caso che vede coinvolto un pedofilo condannato è un affronto da punire con la degradazione pubblica? È questo il coraggio? È questa la verità senza filtri?

Le condanne arrivano, rituali e prevedibili. Jake Tapper della CNN lo definisce “disgustoso e inaccettabile”. Gretchen Carlson, che conosce bene la violenza del potere maschile, parla di “disgustoso e degradante”. Ma mentre una metà dell’America si indigna, l’altra metà ride. Ride e condivide sui social, felice di vedere umiliato un “giornalista mainstream”, felice di vedere il proprio campione combattere contro la “dittatura del buonismo”.

Qui sta la vera magia nera del trumpismo, trasformare ogni insulto in un test di fedeltà.
O ridi con lui o sei il nemico.
O ti diverti o sei parte del “sistema”.

E nel frattempo la domanda – quella domanda su Epstein, quella che avrebbe meritato una risposta – scompare nel rumore. Evaporata. L’insulto diventa la notizia, la sostanza resta sotto il tappeto.

Trump ha perfezionato l’arte di spostare sempre il piano. Non risponde mai nel merito, attacca chi interroga. Non dice perché non vuole pubblicare quei documenti, azzanna la voce che glielo chiede. Non governa, performa. E funziona. Funziona da anni. Funziona tanto da riportarlo nello Studio Ovale.

C’è chi continua a dire che lui è solo il sintomo. Che la rabbia degli americani è la causa vera. Ma che rabbia è quella che applaude quando una donna viene chiamata “maialina” per aver fatto una domanda? Che protesta è quella che scambia l’umiliazione per giustizia?

Trump non ha inventato la cattiveria. L’ha soltanto liberata, organizzata, resa presentabile. Ha trasformato un’emozione grezza in un lasciapassare “Se lo fa il presidente, posso farlo anche io”. È questo il vero lascito del trumpismo. Non le politiche, non le scelte, non gli scandali. Ma ciò che normalizza. Ciò che autorizza.

Quando un presidente degli Stati Uniti può chiamare “piggy” una giornalista senza pagare alcun prezzo – anzi, guadagnando applausi – significa che qualcosa si è incrinato nel fondamento stesso della convivenza democratica. Non è più una questione di destra o sinistra. È una questione di decenza minima. Di regole di base. Di umanità elementare.

Catherine Lucey entrerà nella lunga lista delle donne insultate da un uomo che scambia la volgarità per leadership. Ma resterà anche come testimone di un momento preciso: l’istante in cui l’America ha scelto, di nuovo, uno showman che ha fatto dell’offesa una dottrina politica.

E noi? Continuiamo a guardare questo spettacolo dall’alto dell’Air Force One.

C’è chi ride. C’è chi si vergogna.
E poi c’è chi ha smesso di sorprendersi.
Che, a pensarci bene, è la forma più pericolosa di resa.

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