HOUSE OF CARDS ALL'AMATRICIANA
Siamo entrati nel nuovo episodio della tragicommedia politica italiana, quello in cui il Quirinale viene evocato come il set di House of Cards, La Verità si autocandida a regista occulto e Bignami interpreta l’attore indignato “su richiesta”, come nei casting improvvisati delle soap pomeridiane. È bastato un articolo costruito con il consueto trucco narrativo — il condizionale travestito da certezza, l’indiscrezione che finge di essere prova, il sospetto camuffato da scoop — per far ripartire la macchina del vittimismo governativo, sempre pronta a ruggire alla minima vibrazione. Ed eccoci, il Quirinale starebbe complottando contro il Governo. Trame così ardite che perfino nei romanzi di spionaggio da edicola si imporrebbe un minimo di pudore letterario.
La scena in Parlamento ha rasentato il surreale, Bignami, con la delicatezza di un avventore al quinto spritz, insinua retroscena e trame di Palazzo. Ufficialmente parla di un consigliere del Presidente della Repubblica, in pratica, punta a mettere in imbarazzo proprio il Colle. E mentre agita l’aria con la teatralità dell’offeso, sembra dimenticare anni di attacchi, sospetti e bordate contro qualsiasi istituzione che non si prostrasse ogni mattina davanti alla Premier. Ora, improvvisamente, scopre che esistono giornalisti e funzionari che non rispondono all’altare del Governo con l’entusiasmo del chierichetto la domenica.
Il paradosso — quasi un caso da manuale di sociologia politica — è che la maggioranza al governo continua a comportarsi come un’opposizione permanente, vive in uno stato emotivo per cui ogni critica è una congiura, ogni analisi una trappola, ogni voce non controllabile un attacco orchestrato da poteri oscuri. Così si arriva all’incredibile, brandire La Verità — giornale che ha costruito un vero distretto industriale della dietrologia — come fonte autorevole per dipingere il Quirinale come una centrale occulta di sabotaggio istituzionale.
Nel frattempo, si pretende che la stampa si trasformi in una sorta di ministrante istituzionale, e che il Quirinale, di fronte a questo teatrino, si senta improvvisamente colto in castagna, licenzi un consigliere come capro espiatorio e porga pure le scuse all’esecutivo. È l’ennesimo capitolo della politica italiana che preferisce la sceneggiata al governo reale: invece di affrontare i problemi del Paese, si fabbricano complotti prefabbricati per alimentare l’indignazione del giorno.
Perché, alla fine, la storia è sempre la stessa: gridare al complotto costa meno che governare, accusare il Colle fa più rumore di una manovra impopolare e trasformare una semplice critica in un attentato alla democrazia è infinitamente più facile che assumersi la responsabilità della realtà. In Italia, la tragedia istituzionale diventa commedia alla velocità di un titolo di giornale — e spesso si ride per non piangere.
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